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14.12.2024

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I nativi digitali
31 Gennaio 2014

I nativi digitali

È in crisi il pensiero critico dei giovani sotto i 30 anni. Sostituiscono bene e male con utile e inefficace. Per loro, tutto è a portata di click e fanno fatica a… fare fatica. Che cosa fare con loro?

Si parla sempre più spesso di nativi digitali, cioè di quella generazione che è nata con il cellulare incorporato, quei ragazzi che quando con la mano fai il segno del telefono, cioè ruoti l’indice destro da basso a sinistra ad alto a destra, non capiscono che cosa intendi.
C’è poco da scherzare però, perché il problema è serio e va comunque compreso: ne va della comunicazione e della comprensione. Quindi anche dell’evangelizzazione, se vogliamo.

Da «chi parla?» a «dove sei?»
Come sempre i partiti sono due: gli entusiasti, quelli per cui siamo quasi di fronte a un nuovo tassello evolutivo; e gli iperscettici, quelli secondo cui non è cambiato nulla.
Come sempre la verità sta nel mezzo: perché qualche cosa è cambiato sì, non tanto perché oggi tutto è tecnologico, quanto per i cambiamenti che questa tecnologia ha comportato nella mentalità, e forse anche a livello neurologico. I sostenitori dello scatto evolutivo fanno notare che l’umanità è già passata attraverso dei cambiamenti apparentemente innocui, che l’hanno però profondamente mutata: così, la comparsa della scrittura ha lentamente dissolto la necessità di tramandare tutto solo attraverso la via orale e la stampa ha reso questa novità disponibile a tutti; la fotografia prima, poi la radio e infine la televisione hanno introdotto altre importanti novità: l’uso dell’immagine per comunicare, il legame a distanza, la condivisione di eventi lontani.
Tutto questo ha in qualche modo modificato il nostro modo di riflettere e ragionare.
La tecnologia (soprattutto internet ma non solo), oggi, ha prodotto mutazioni analoghe soprattutto in quelle generazioni che non hanno conosciuto le epoche precedenti? Ci sono novità che hanno cambiato la nostra vita: ad esempio, se poco più di vent’anni fa (sì, così poco) per essere contattati al telefono bisognava essere in un posto fisso e la domanda che si faceva sollevando la cornetta era «chi parla?», oggi invece sei contattabile ovunque e sempre (prova a non farti trovare per più di 20 minuti…) e la domanda che facciamo rispondendo è «dove sei?». E figuriamoci come può essere la vita di chi non ha conosciuto un’età nella quale per avere una informazione bisognava frugare la memoria o ricorrere alle biblioteche.

Cambia il modo di pensare
Cambiano i modi di riflettere: siamo nell’epoca dell’immagine, anzi del video, e dell’iperlink, dei collegamenti che si aprono a raggiera e spalancano qua un filmato, là una foto, lì un testo originale, qui un audio di qualche speciale evento. In un mondo così è comprensibile che la memoria e il ragionamento procedano ad albero e non linearmente – oserei dire per sillogismi – e ne consegue che cambi anche il significato delle parole che riflettono azioni connesse.
Quando a scuola ci davano da fare una ricerca, diligentemente andavamo in cartoleria a comperare l’album con le figurine (li ricordate?), ritagliavamo la foto adatta, parafrasavamo le informazioni trovate sul retro dell’immagine, cercavamo su qualche enciclopedia dati aggiuntivi così da poter portare il nostro foglio protocollo vergato a mano. Oggi è diverso: mi raccontava un professore delle medie che, avendo dato come compito da svolgere una ricerca alla sua classe delle medie, si è visto restituire da un alunno la stampata della pagina corrispondente di Wikipedia con scritto in testa il suo nome. Ora, si può anche considerare questo ragazzo il furbetto del compitino, oppure, come faceva il professore, riflettere sul fatto che oggi la parola ricerca ha un senso differente e che se si vuole ottenere un componimento è meglio dare come compito questo: «scrivete una nuova voce di Wikipedia relativa a …». Non è solo un modo diverso e “più moderno” di descrivere una azione, ma è una finestra su un mondo differente.
Un mondo che sta perdendo, ahimé, la capacità di ragionare sostituendola con quella di collegare tra loro le cose. Un mondo che perde il concetto di voce affidabile perché tutto sul web sembra esserlo parimenti: se la mia generazione tende ancora a restare con il dubbio che forse prima di prendere tutto per oro colato è opportuno verificare la provenienza, chi non ha fatto la fatica di selezionare la fonte, consultare volumi e tomi, ma trova tutto a portata di Google, come potrà cogliere l’importanza di selezionare e riflettere su ciò che ha trovato? Influsso dei videogiochi In quale modo i videogiochi influenzano la capacità di azione? Il professor Luis Cardona, fondatore dell’accademia Everest di Lugano, basata sui principi della neuro-pedagogia digitale, di cui Cardona è un caposcuola, sostiene che l’esposizione frequente ai nuovi videogiochi interattivi produce cambiamenti sostanziali nell’approccio alla vita dei ragazzi – specialmente dei maschi, che sono fruitori di questi giochi in misura decisamente superiore rispetto alle femmine – e in particolare sviluppa in loro la capacità di risolvere problemi e affrontare ogni situazione con sguardo molto analitico e sintetico al tempo stesso, ne favorisce le capacità deduttive ed esperienziali – dato che si impara a giocare provando, non studiando il manuale delle istruzioni – e sviluppa la collaborazione con specializzazione. Insomma, secondo Cardona questa esposizione favorisce lo sviluppo di manager, cioè ragazzi che vogliono trovare la propria strada per apprendere, contrapposti a funzionari, esecutori che aspettano ordini per agire.

Come insegnare
Prendendo per vera questa ipotesi, e sono molti i segnali che inducono a fidarsi di Cardona, sarebbe necessario cambiare radicalmente il modo di insegnare: coinvolgere e rendere più partecipi gli alunni invece che sottoporli a lunghe lezioni frontali che finiscono per sfibrarli e produrre noia e bullismo. Insomma, il vecchio metodo del mio insegnante di italiano al liceo, che entrava in classe e per un’ora dettava i suoi appunti, oggi non funziona: quanti sono gli insegnanti che ancora si servono di tecniche simili a questa? Che cosa realmente trasmettono ai ragazzi nativi digitali?
Cambia dunque il modo di comunicare e discutere con questi nativi digitali, cambia il tempo della loro attenzione, cambia la lunghezza dei discorsi, cambia la capacità di selezionare. E se vogliamo entrare in dialogo con loro, non dico che è meglio chattare che parlarsi, ma sicuramente dobbiamo essere più vicini ad esprimere le nostre idee in 140 caratteri – la lunghezza di un testo ammessa da Twitter, uno dei più potenti sistemi di comunicazione – che non alle paginate di un tempo.

Risvolti negativi
Ciò detto, diamo un breve sguardo a due conseguenze di questo cambiamento: il lato negativo e le implicazioni, temi che sono ovviamente intessuti tra loro specie nel campo educativo.
I giovani wiki tendono a sostituire le categorie del bene e del male con quella dell’utile e dell’inefficace e sono portati a considerare che tutto sia a portata di click. Avendo poi spesso sostituito l’esperienza concreta con quella virtuale, fanno fatica a… fare fatica, quella vera, che è la strada per comprendere l’importanza dello sforzo e della continua correzione di sé. Possono essere disconnessi dalla realtà – se nel gioco muoio, basta ricominciare con una nuova partita – e inclini a considerarsi il centro del proprio universo.

Che cosa fare?
È opportuno aiutarli a ricalibrare la vita e riequilibrare la visione del mondo: se è un errore immaginare di riuscire a tenere fuori dalla nostra e dalla loro vita la realtà virtuale, che è ormai così intrecciata con quella reale da costituire un continuum inseparabile, è però opportuno ricordare loro di continuo che quest’unica esistenza ha regole che il web può anche ignorare, ma la vita no. Bisogna modificare il nostro modo di guidarli, non per negare un’epoca che potremmo definire analogica, ma per tenere conto che questa generazione ha bisogno di esempi.
E come farli innamorare di Cristo con metodi nuovi e ragionamenti nuovi? Come dare loro delle verità immutabili usando nuovi percorsi e nuovi canali? È questo un campo in cui vale la pena spendere energia e idee. Bisogna manifestare nella propria condotta la credibilità dell’apostolo, mediante una vita schietta e uno sforzo costante, col racconto di una persona e non di una teoria. I digital kid amano le storie, non le dottrine: quelle le deducono in seguito. Sarà per questo che le GMG hanno sempre tutto questo successo?

Per saperne di più…

Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?, Raffaello Cortina, 2011.
Paolo Ferri, Nativi Digitali, Bruno Mondadori, 2011.
Sonia Livingston, Ragazzi online. Crescere con internet nella società digitale, Vita e Pensiero, 2012.

IL TIMONE N. 119 – ANNO XV – Gennaio 2013 – pag. 14 – 15

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