Il XX fu un secolo terribile. Molte le poesie da dimenticare, ma risplendono alcune gemme che testimoniano il desiderio sincero di incontrare il Creatore.
«Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato» scriveva Pascal, nel Seicento, forte di un’intuizione agostiniana. Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato: chi parla è la voce di Dio, dell’Essere che si rivela all’uomo e va verso di lui.
È un’esperienza provata, in modi diversi, dagli uomini. Eppure, tanta grande poesia del XX secolo appare sorda, distratta da altre voci; tace il verso del Salmo “il Signore è vicino a chi lo cerca”; né i lirici riecheggiano il giubilo di chi “è stato trovato”.
Nel medioevo, le creazioni della poesia e della mistica rivelarono in lungo e in largo questa verità, che al termine di ogni «cerca» non è il cercatore a trovare qualcosa, quanto a essere trovato da Qualcuno. I poeti novecenteschi si sono beati della ricerca, al pari dei cavalieri-trovatori medievali, crogiolandosi in essa. Hanno sostato, patito a furia di ricercare; spesso accartocciati in incomprensibili ermetismi, in ammutoliti solipsismi. Con esiti scarsi: «sempre corsi, e mai non giunsi il ?ne» scrisse lo sconsolato Carducci.
IL VOLTO DIVINO NEL TEMPO
L’immagine del Dio rivelato da Gesù Cristo, nitida e amabile nei poeti dell’età di mezzo e nella Commedia, subisce un’erosione nei secoli sino a ?nire s?gurata o eclissata dall’arte. Una volta perso il santo volto del Salvatore, è perduto anche il viso dell’uomo, di qualunque uomo: ci si guarda in faccia, senza riconoscersi più.
Il recupero delle luci della poesia italiana è merito, da anni, di Giambattista Gandolfo, sacerdote critico e poeta, il quale concretizza annualmente gli esiti delle proprie ricerche, coadiuvato da Luisa Vassallo, in antologie tematiche: Il canto del cielo. Gli angeli nella poesia italiana del Novecento, seguito da Natale dei poeti e poi da Pasqua dei poeti.
Con L’ombra della luce. La ricerca di Dio nella poesia italiana del Novecento (Ancora, 2003), Gandolfo e Vassallo tentano di nuovo l’ardua opera di calarsi nel pozzo nero di un secolo dif?cile; e si può dire che il tentativo sia riuscito, perché al termine della lettura il lettore riceve in dono la possibilità di intravedere un volto, in forma di poesia: ne riconosce le fattezze. Ciò signi?ca non essere soli. Così si distrugge il primo dogma della poesia novecentesca, la folle persuasione cioè che ogni uomo sia un’isola, solitaria, nell’universo scon?nato. Riconoscere un viso vuol dire anche sentire un assaggio di Paradiso, ricevere una caparra di felicità, pregustare un anticipo del faccia-a-faccia de?nitivo: come disse un grande padre della Chiesa, Clemente Alessandrino, “hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio”.
PROFEZIA E GIUDIZIO, CONTRO IL TEMPO
Si esce dalla lettura di quest’antologia con un coacervo di emozioni contrastanti. Il Novecento del resto è stato il secolo dei paradisi e degli inferni: comfort e piacere smodato sono ora alla portata di (quasi) tutti, così come l’orrore e la violenza bestiale; ciò non può non interessare la poesia, legata com’è agli umori dell’anima degli uomini, alla loro voce.
Si esce dalla lettura di quest’antologia con la convinzione che sia di nuovo il momento di parlare il linguaggio della profezia e dunque del giudizio, di andare contro-tempo, benché dentro il tempo, benché accosciati in un luogo anonimo e ben de?nito della storia. Chi parlerà così? Poeti o sacerdoti, istrioni o uomini pii, adulti o eterni immaturi? La questione è più importante di quanto non si creda, perché il dramma che stiamo vivendo è innanzitutto un dramma delle parole (abbiamo una fame terribile di quelle buone); e perché l’attesa di una rivelazione, un’apocalissi, è implicita ai dolori del dramma a noi contemporaneo.
Sorge quindi la conseguente domanda: ma noi, in che tempo viviamo? Non è soltanto un interrogativo “da poeti”. Nel medioevo il senso del tempo era offerto a tutti, come testimonia un vescovo scrittore, Jacopo da Varagine, il quale iniziava la propria Leggenda aurea (1280 circa) chiarendo quali fossero “i tempi del tempo”: il tempo dell’errore, il tempo del rinnovamento, il tempo della riconciliazione e il tempo del pellegrinaggio. Fuori dal tempo sta la meta, visibile come in uno specchio, per accenni.
Il poeta contemporaneo, al contrario, cede di fronte alla s?da temporale: come Faust, vuole forzare i tempi, fermare l’attimo, non ha più tempo. La sua poesia non è veicolo, non abbrevia i tempi. Un esempio? Eugenio Montale, oramai vecchio, ammise che i suoi “commerci con l’Altro furono un lungo inghippo” e riparlò di illusione, a proposito di Dio, rispolverando il credo leopardiano. E nell’atto del bilancio di una vita, confessò: “rifarò il censimento di quel nulla / che fu vivente perché fu tangibile”.
Montale era il maggiore, l’inarrivabile caposcuola: la decenza ci trattiene dal menzionare le frotte di imitatori, ermetici esistenzialisti di terza mano, di cui traboccano libri libretti e libelli di cent’anni di Novecento: ammesso che siano stati letti almeno una volta da qualcuno, chi li rileggerà?
C’È UNA LUCE IN FONDO ALL’OMBRA
Ma narrare in poesia il nostro vivere, l’aver vissuto il Novecento, non è solamente un racconto doloroso o straziante: c’è altro. Anche questo è merito di Gandolfo e Vassallo, i curatori dell’antologia, che di Giuseppe Ungaretti hanno scelto la lirica intitolata «Risvegli»: “e la creatura / atterrita / sbarra gli occhi / e accoglie / … / E si sente / riavere”.
Se il XX fu un secolo terribile, tuttavia alcune voci luminose e confortanti emergono dalla caverna, permettono di riaversi: su tutte Elena Bono, ricca d’una ispirazione che non la rende seconda a nessuno. Ci sono bagliori anche nei versi di Luisa Vassallo, poetessa e madre, che attinge al lieve ponticello tra poesia e preghiera: “Come un bimbo / è il mio Signore / che ha nei palmi / morbidi sof?oni. / Si disperdono nel cielo, / ?nché li afferra / con occhi grandi e divertiti. / È bello stare nelle mani / di un bambino”.
RICORDA
“Penso ci siano anche altri momenti, fuggevoli e veloci, in cui la Vergine avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo ?glio, il suo bambino, ed è Dio. Lo guarda e pensa: «Questo Dio è mio ?glio. Questa carne divina è la mia carne. È fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. È Dio, e mi assomiglia». Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio per sé sola, un Dio bambino che si può prendere fra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che ride.
È in uno di questi momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore”.
(Jean Paul Sartre, Bariona o il ?glio del tuono, dramma scritto in campo di prigionia tedesco).
IL TIMONE – N. 32 – ANNO VI – Aprile 2004 – pag. 52 – 53