Quando la televisione immiserisce la grande letteratura. Ma le ambiguità non mancano anche nel testo del Manzoni.
Lo scorso gennaio, su Canale5 è andata in onda in prima serata una versione televisiva “liberamente tratta” dal romanzo di Manzoni, per la regia di Francesca Archibugi. La trasmissione ha riaperto, per fortuna in un tono minore, l’annosa polemica pro o contro le riduzioni filmiche del testo che tutti gli italiani hanno (o dovrebbero aver) letto.
Chi ha assistito alla visione, in due serate, del film-tv sa che l’opera appare malriuscita e non ha presa sotto il profilo squisitamente artistico.
Lasciamo stare fedeltà o tradimenti dell’originale manzoniano: la pellicola dell’Archibugi (una regista che forse ha raggiunto il suo massimo con Il grande cocomero, 1993) si rivela promettente per i primi quarantacinque minuti, perché svaria sul tema romanzesco con molta libertà; poi lo sceneggiatore si ricorda che il titolo è Renzo e Lucia e all’improvviso tramuta il copione in un riassunto dei primi otto capitoli. La seconda puntata riarrangia le trame dei restanti trenta capitoli con tagli e sfumature.
Non sapremo mai quale effetto abbia sortito il film sugli spettatori; anche la reazione della stampa è stata blanda. Il 13 gennaio, sul Corriere della Sera un fiacco articolo di G. De Rienzo sottolineava la “clamorosa irriverenza filologica” della regia e la “consapevolezza del proprio corpo” attribuita al personaggio di Lucia Mondella. Molto più interessante, la critica portata da F. Roncoroni sulle colonne de La Provincia conferiva un voto gravemente insufficiente.
Per che cosa ne è valsa la pena?
Ogni riduzione cinematografica di un classico deforma il classico stesso sulla misura dell’epoca che lo reinterpreta: in anni poveri e meschini, quando prevalgono idee sull’uomo misere e riduttive (sto parlando del presente) le rivisitazioni dei grandi classici sono sempre rivisitazioni povere e meschine. Detto questo però, lo sceneggiato offre alcune perle, confuse in un canovaccio riduttivo della complessità dell’opera manzoniana.
Innanzitutto la grande, esaltante, scelta di far parlare i personaggi in lombardo, talvolta in dialetto e comunque con una pesante inflessione locale: che liberazione! Tra i molti difetti de I Promessi Sposi c’è di sicuro la famigerata “risciacquatura in Arno” che don Lisander fece del proprio lessico, col risultato di creare una lingua artificiale. La Archibugi invece mette in bocca ai popolani parole e accenti marcatamente antiaccademici: solo per questo dovremmo essere benevoli con il suo coraggio (peccato che poi alcuni attori mantengano un’improbabile parlata toscaneggiante o romanesca, sino all’assurdo di un Paolo Villaggio evidentemente incapace di interpretare don Abbondio).
In secondo luogo, è piacevole e fedele l’ambientazione, cioè il paesaggio, che è il vero grande amore di Manzoni, per il quale il romanziere spese amorevoli pagine da “Quel ramo del lago di Como” all’“Addio, monti sorgenti dall’acque” ai tanti sfondi lombardi, milanesi, padani che contornano le scene della storia degli sposi promessi.
Poi ci sono, qua e là, frasi e battute che non c’entrano niente con il romanzo ma che colpiscono: per esempio il tono con cui entra in scena Don Rodrigo, il quale è finalmente un uomo e non un insensato e violento dongiovanni. Proprio a proposito del signorotto locale spagnolo (che qui è un avvenente attore, senza i proverbiali baffi spagnoleschi) riceviamo le maggiori soddisfazioni: Don Rodrigo ricorda tanti giovani contemporanei, il cui disagio è un disagio affettivo, la cui frenesia è da attribuirsi alle carenze d’amore da parte dei genitori e al prevalere delle esigenze edonistiche dell’adulto a danno del bisogno di accoglienza e stabilità e sacrificio che ogni bambino chiede per diventare davvero un uomo o una donna in seno a una famiglia.
La regista infatti dà il meglio di sé nelle sfumature psicoanalitiche e di sociologia famigliare, l’abbiamo notato nel suo film d’esordio Mignon è partita (1988): per questo nota che il problema che accomuna Don Rodrigo a Renzo è il loro essere privi di genitori. Alcuni dialoghi sono illuminanti, in materia.
Bella è la figura di Fra’ Cristoforo: sebbene l’aspetto religioso sia tralasciato completamente dalla sceneggiatura (ma il vero colpevole fu Manzoni stesso), c’è una scena in cui Lucia si confessa dal frate; e il sacramento, benché attualizzato quasi in un “colloquio”, è ritratto con dolcezza e rispetto.
Se risulta pregevole la presentazione di Don Rodrigo come cercatore d’amore vero, di un amore cioè che sappia cambiare la vita di chi lo prova e di chi lo dà, del tutto fuori registro è l’episodio della Monaca di Monza: si scade nel sentimentalismo, ben oltre il gusto romanzesco del manzoniano e intrigante Fermo e Lucia. Discutibile anche la sequenza di Renzo a Milano, travolto dai tumulti e dal dilagare della peste. Un po’ troppo marcata, e dunque poco manzoniana, la sottolineatura della questione sociale dei ricchi e dei poveri.
Ma belle e memorabili le parole di una stravolta madre di Cecilia che depone la figlia morta sul carro dei monatti e le dà l’arrivederci in cielo; oppure della Monaca che interroga Lucia e poi conclude, amara, che “sì, gli uomini guardano le ragazze… e fanno male”.
Infine, il gran finale: quando Lucia e Renzo si uniscono nell’atto di amore coniugale, in sottofondo si odono i primi vagiti dei figli che presto nasceranno; e l’ultima scena è intimo ritratto di famiglia, con tanti bambini che s’addormentano assieme a mamma e papà nel letto matrimoniale.
Ma il problema resta il romanzo
Insomma, la riduzione televisiva sarà anche debole e lacunosa: però la pietra di scandalo è l’ambiguità dell’originale del Manzoni.
C’è un’ambivalenza intrinseca nell’opera, come ha rilevato E. Noè Girardi in sede critica: tutto è doppio, duplice: i due rami del lago, le due viottole, i due bravi, eccetera. La regia sottolinea il dubbio di Lucia tra due amori diversi.
E poi c’è da riflettere su un fatto: come mai I Promessi Sposi sono un libro che la cultura massonica del Risorgimento ha subito accettato come testo canonico per le “scuole del Regno di ogni ordine e grado”? Perché Manzoni è sempre stato definito un autore “cattolico”? Sono ombre che tenteremo di chiarire in altri interventi, ma restano come ombre lunghe sulla nostra scuola, sulla nostra cultura. La Archibugi, forse senza saperlo, le ha messe in luce.
IL TIMONE – N. 31 – ANNO VI – Marzo 2004 – pag. 54 – 55