Ora che lo scandalo è diventato tragedia, ora che c’è scappato il morto, tutti sembrano affranti e sconvolti. Come se all’improvviso scoprissero che al di là del crack finanziario c’è di più, c’è in gioco la vita.
È bene riflettere sulla vicenda Parmalat – un nome, un caso: ma Cirio, Finmatica, Enron, Worldcom vanno bene ugualmente – e sulla ricerca dell’etica nel mondo del lavoro. Colpisce che tutte le soluzioni proposte siano centrate sull’aumento di organismi di controllo. Si tratta di un approccio materialista che crede che la salvezza dell’uomo stia nella struttura: se la struttura è buona allora l’uomo non può che essere buono. L’approccio cristiano parte invece dalla persona, e la considera per quello che è: creatura, figlio di Dio, incline al peccato in conseguenza della caduta dei progenitori. La natura umana è questa, capace di salvezza e impastata di peccato.
“Chi custodisce i custodi?”, l’antico adagio si adatta bene a questa situazione: la moltiplicazione degli organismi di controllo non assicurerà mai l’onestà dato che questa non abita nella struttura, ma alberga nel cuore dell’uomo. Questo è il punto: il risveglio dell’etica nel mondo degli affari, indotto dal susseguirsi di crolli di aziende ben note, impone la riscoperta della dimensione morale più profonda. Le imprese si sono accorte che il mercato giudica molto più che la sola qualità dei prodotti, per vagliare la statura etica delle aziende e scegliere chi ritiene affidabile.
Francesco Biondi, senior partner della società di consulenza Governance Consulting, in una recente intervista apparsa su CorrierEconomia spiega perché le aziende vogliano dotarsi di valori e di un codice etico: «Magari inizialmente sono spinte dall’idea dell’immagine, ma poi, una volta fatti gli investimenti, si rendono conto che è sempre un gioco a somma positiva. Perché l’impatto sulle aziende e sulle performance è notevole: sulla fidelizzazione dei clienti, sulla produttività, sul turnover che è basso, sulle economie di scala, oltre ovviamente sull’immagine. L’importante è non avere fretta, perché i risultati si colgono nel medio-lungo periodo».
Tuttavia le aziende, non essendo che organizzazioni, non possono essere etiche: per diventarlo devono trasformarsi in organismi, in comunità, in “team”. Etiche non sono le aziende, etiche sono le persone che le compongono e che costituiscono il capitale sociale delle imprese stesse. È per questo che i tempi non sono brevi: le persone cambiano lentamente! È però necessario comprendere che cosa sia la persona e come essa agisca e intervenire di conseguenza: il vuoto morale finisce per disgregare il profitto, il relativismo si ritorce contro chi lo ha generato. Senza la comprensione della natura ferita dell’uomo, della presenza del fomes peccati, la propensione al peccato, diventa difficile formare le persone e moralizzare la cultura aziendale.
Eppure qualche cosa si muove. In tutto il mondo fioriscono le scuole di etica aziendale, si riconsidera la persona soggetto del lavoro, si parla di equilibrio tra vita professionale e vita personale, prende piede la consulenza del lifecoaching – letteralmente: assistente per la vita – molto simile alla ben nota pratica della direzione spirituale.
Sembra un segnale confortante, mi piace dire provvidenziale, che proprio il mondo del lavoro, il quale va santificato, stia riscoprendo l’importanza di un’etica saldamente fondata sul senso del bene e del male, sulla legge naturale, sulla legge divina.
BIBLIOGRAFIA
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