Occorre fare alcune precisazioni sul cosiddetto “Canone Romano” che risulta essere (e credo debba intendersi così) l’espressione più antica e completa della tradizione liturgica romana.
Si tratta di un testo del quale ci sono giunti i primi frammenti attraverso il De Sacramentis di S. Ambrogio da Milano e alcuni testi antichi della tradizione ispano-mozarabica. Questo vuole dire che una prima redazione del Canone fu conosciuta presto negli ambienti “antiariani” a Milano e in Spagna.
La prima osservazione riguarda coloro i quali sostengono che il Canone abbia una struttura “strana”. Certamente non segue il modello narrativo delle preghiere di origine antiochena. A partire dallo sviluppo di una visione integrata delle Scritture, la grande scuola alessandrina sviluppò come metodo esegetico la tipologia: Cristo è la pienezza della Rivelazione, le Scritture a Lui anteriori ne parlavano mediante “figure” che trovano la loro chiave interpretativa e la loro pienezza in Lui; conseguentemente, per mezzo di tali “figure”, noi oggi possiamo conoscere Cristo e le sue opere, più e meglio. Questa esegesi darà luogo, a partire dalla tipologia, ad un modello di Preghiera non narrativa bensì teologica. La strutturazione del discorso ubbidirà non già ad un ordine cronologico dei fatti, bensì ad una “gerarchia teologica” degli elementi, collocando nel centro l’elemento considerato più importante e circondandolo di circoli concentrici per gli altri argomenti, da maggiore a minore importanza.
Così arrivò da Roma un modello che è considerato come molto adatto per esprimere la comprensione del Mistero dell’Eucaristia e la fede in Gesù Cristo; modello probabilmente accreditato per i contatti tra Roma ed Alessandria in quei momenti storici, coincidenti con gli anni dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451), e con il prestigioso patriarcato di Cirillo di Alessandria dal 412 al 444. Nel centro della Preghiera, dunque, un nucleo anamnetico col racconto dell’Istituzione; attorno ad esso una prima corona, di tipo epicletico, costituita dalla Benedizione sui doni, prima, e dalla Benedizione sull’Assemblea, dopo. La seconda corona è di natura intercessoria e la costituiscono il c.d. Memento dei Vivi, prima, e il Memento dei Defunti dopo, accompagnati da una serie di santi, da cui il termine “canonizzazione” – introdurre nel Canone – ed infine, in un ultimo circolo, un’introduzione e una conclusione: come introduzione il Prefazio, prima di “fare” l’Eucaristia, che culmina nel canto del Sanctus, e come conclusione la Dossología, che culmina con l’antichissimo uso dell’acclamazione “Amen” intonata da tutta l’Assemblea. Questa è l’armoniosa e salda struttura del Canone Romano.
Una seconda osservazione. Non mancano, ancora oggi, coloro che continuano a mettere in dubbio la presenza dello Spirito Santo nella teologia eucaristica del Canone Romano. È certo che non si formula un’invocazione “nominatim” dello Spirito nella versione originale di questa Preghiera. Ma altrettanto certo è l’evidente carattere epicletico, che per i redattori del Canone avevano le due Benedizioni, una precedente e l’altra susseguente il racconto dell’Istituzione ed il suo contesto immediato, di tipo “memoriale”. Se si riprende l’antico vocabolario della teologia romana (Ippolito), si può scoprire che la Benedizione che il Padre invia sulla Chiesa, accogliendo i meriti di Cristo (sulla Croce), è lo Spirito Santo, con un fondo che rimanda molto probabilmente al Vangelo di san Giovanni. Così il “gesto” di tracciare il “Segno” della Croce, accompagnato dalla supplica al Padre di inviare la sua benedizione, è chiaramente quello che dovrebbe chiamarsi una Epiclesi di tipo romano. Nella versione del Canone che si trova nel Messale nuovo, sebbene non prevista, è possibile tracciare la croce nell’epiclesi pre-consacratoria; dubito che tutti i segni di croce ivi soppressi fossero stati di “scarso valore (in quanto segni) e di dubbiosa antichità”.
IL TIMONE N. 111 – ANNO XIV – Mrzo 2012 – pag. 47
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