Il martirio non è disprezzo della vita, ma la testimonianza personale della propria fede cristiana nata da un’esperienza di amore incondizionato in ogni ambito della realtà fino alle estreme conseguenze. Josyf Ivanovic Slipyj, primate della Chiesa cattolica ucraina del quale si ricorda il 30° anniversario della morte, ne è un esempio. «Nel corso della mia vita sono stato prigioniero volontario di Cristo, e tale rimango lasciando questo mondo! », scrisse di sé nel suo testamento autobiografico, ultimato il 6 dicembre 1981: una vita vissuta all’insegna del martirio ricca di insegnamenti validi anche per l’oggi.
La famiglia e la cultura innanzitutto
«Già da giovane ero diventato prigioniero volontario di Cristo!». Questo perché «sono nato e cresciuto in una famiglia contadina ucraina di fede cristiana, che mi ha trasmesso la fede in Cristo e l’amore verso di Lui».
Josyp Slipyj, nato il 17 febbraio 1892 a Zazdrist nei pressi di Ternopol, nell’arcidiocesi di Leopoli, è stato amato con quell’amore incondizionato cristiano che ha acceso da subito «un fuoco» dentro di lui che ha determinato le scelte della sua vita. Il bene ricevuto dai genitori lo ha portato a fare questa affermazione: «I genitori e la famiglia cristiana costituiscono la base di una società sana. Di conseguenza, vi comando di conservare la vera famiglia cristiana, focolaio inestinguibile della vita e della salute della Chiesa e del popolo!». La famiglia è fondamento della società, perché è proprio grazie ai legami amorevoli di paternità e di maternità che l’essere umano diventa persona, inizia a capire chi è, impara ciò che è bene per lui, cosa vuol dire essere amato e cosa vuol dire amare. Perciò, dovere di ogni cristiano, per Slipyj, è difendere l’originalità della famiglia naturale: c’è da chiedersi se le parole di Slipyj non valgano, oggi, per tutti i cattolici e per tutti coloro che hanno interesse a crescere una società buona di fronte a un’ideologia individualistica poco incline a sostenere la famiglia.
L’esperienza di amore incondizionato vissuta in famiglia indusse Slipyj ad abbracciare la vocazione sacerdotale: terminato il liceo, si iscrisse alla facoltà di filosofia dell’università di Leopoli, frequentò il collegio Canisianum dei gesuiti di Innsbruck in Austria e il 30 settembre 1917 venne ordinato sacerdote nel locale monastero basiliano- studita. Una delle sue priorità fu da subito la cultura: laureatosi in teologia, da professore di teologia dogmatica nel seminario di Leopoli fondò, nel 1923, la rivista trimestrale “Teologia”, poi passò a dirigere il seminario, diventò primo rettore della locale Accademia Teologica e presidente della Società Scientifica Teologica. Per Slipyj, la cultura e la famiglia sono entrambi «presupposti necessari per l’educazione corretta delle nostre generazioni future!»: un cristianesimo che non è capace di diventare cultura non potrà mai comunicarsi, perché è un’esperienza che abbraccia ogni aspetto della vita, «il cielo e la terra, il tempo e l’eternità, la storia e l’attualità, il cuore e la mente» dando senso a tutto. Slipyj, infatti, chiarisce bene che per cultura non si intende la quantità, ma la qualità del sapere: la sapienza, che è proprio la capacità di cogliere il senso della realtà e che, pertanto, «è soffio di vita!». Cultura e sapienza sono legate alla libertà: «una nazione che dimentica il suo passato e i tesori spirituali che contiene, morirà e scomparirà dalla faccia della terra». C’è da chiedersi se la crisi che stiamo vivendo non derivi proprio dalla «non considerazione per ciò che i nostri nonni e i nostri bisnonni raggiunsero con i loro sforzi e con i loro sacrifici» (per il primate ucraino, gli anziani, proprio perché saggi, sono la personificazione della sapienza) il cui effetto è una crisi di identità e di senso che emerge, specialmente nei giovani, nella «leggerezza del carattere», nella fragilità psicologica ed emotiva che espongono al “servilismo” e all’omologazione nei confronti di tutto quello che l’ideologia individualistica dominante tende a imporre. Tutt’altro che libertà.
Il “doppio martirio”
Nel 1944 l’invasione dell’Armata Rossa comportò l’instaurazione del regime comunista sovietico, la scristianizzazione dell’Ucraina, l’arresto e la deportazione della gerarchia cattolica nei campi di concentramento. Josyf Slipyj fu internato nei più tremendi campi di concentramento sovietici: Makfakovo, Viatka, Novosibirsk, Boimy, Petschora, Inta, Krasnojarsk, Kamtschatka, Jenisseisk, Mordovia, Workuta, Potma. Furono 18 anni di interrogatori, fame, torture, umiliazioni, maltrattamenti fisici e morali per costringerlo a rinunciare alla sua fede e alla sua libertà. Il sacerdote fu per due volte sul punto di morire, per collasso e per sfinimento: in entrambi i casi, i suoi compagni di prigionia gli salvarono la vita prendendosi cura di lui, l’uomo che con la sua fede cristiana e il suo amore gratuito per tutti riusciva a dare forza e speranza agli altri perfino in condizioni inumane come quelle dei campi di concentramento.
Nel 1963 fu inaspettatamente prelevato e portato a Mosca, dove gli fu annunciata la sua liberazione per intervento di Papa Giovanni XXIII. «Questa mia liberazione implica anche la libertà della Chiesa greco-cattolica? », chiese. La risposta fu negativa. Si trattava, infatti, di un’espulsione. Slipyj doveva andarsene dall’Unione Sovietica: Giovanni XXIII lo attendeva a Roma. Sulle prime, il vescovo ebbe una grave crisi di coscienza: non voleva abbandonare il suo popolo. Ma la sua fede risolse i dubbi: il Papa è il capo della Chiesa cattolica; se lo chiamava a Roma, era sicuramente per il suo bene e per quello del suo popolo. Decise di obbedire. In effetti, da Roma Slipyj poté lavorare per gli ultimi vent’anni della sua vita alla ricostruzione della Chiesa cattolica ucraina a partire dalle diocesi degli esiliati ucraini: istituì l’Università Cattolica Ucraina di San Clemente, fece erigere la cattedrale di Santa Sofia e fondò un monastero basiliano- studita sul lago di Albano. Partecipò al Concilio Vaticano II e, nel suo primo discorso all’assemblea conciliare, levò subito la sua voce in difesa del suo popolo perseguitato, e chiese il titolo di patriarcato per la Chiesa cattolica ucraina: «una Chiesa patriarcale costituisce un segno visibile di maturità di una Chiesa particolare, e un potente fattore nella vita della Chiesa e del popolo»: non esiste maggior forma di maturità di quella che scaturisce dal martirio. Ma proprio su questa sua richiesta Slipyj dovette vivere una seconda sorta di martirio: pur creato cardinale (lo era in pectore fin dal 1960) e arcivescovo maggiore da Papa Paolo VI il 22 febbraio 1965, la sua richiesta verrà sistematicamente ignorata. Nel suo testamento scrisse queste drammatiche parole: «Negli anni Settanta la Sede Apostolica Romana, sotto l’influenza e l’autorità dei funzionari della Curia Romana, prese una certa posizione politica, forse anche con buone intenzioni, che colpì dolorosamente la nostra Chiesa e il nostro popolo. Si deve considerare miopia storica » il rifiuto degli «ambienti predominanti della Sede Apostolica di Roma» alla realizzazione del patriarcato «con il motivo della “congiuntura” politica. Quanto ho dovuto soffrire per questo: disprezzo, ferite morali; tutte “frecce del maligno”» le cui sofferenze «non furono affatto più leggere di quelle» patite «nelle prigioni». Da qui, la sua raccomandazione: «Scongiuro, ordino e comando a voi, mio gregge spirituale: non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma anzi confutatele!». Un richiamo che chiama in causa non pochi cattolici (sacerdoti compresi) i quali, anziché difendere coraggiosamente i loro principi “non negoziabili” di vita, preferiscono la più facile via del cedimento alle istanze e agli stili di vita di una mentalità individualistica tutt’altro che cristiana.
La testimonianza di fede all’insegna dell’amore incondizionato è stata veramente condotta dal cardinale Slipyj fino alla fine, perdonando alla fine della sua vita tutti i suoi persecutori, fuori e dentro la Chiesa: «Li perdono tutti, poiché essi sono semplicemente strumenti nelle mani dell’Onnipotente, che mi ha chiamato e che mi ha dato la sua benedizione». Con la stessa serenità con la quale aveva vissuto gioie e dolori in tutta la sua vita, Josip Slipyj il 7 settembre 1984 si spense, in esilio, da martire e da uomo libero, indicando a tutti l’unica vera via verso la libertà.
Per saperne di più…
Per il testamento di Slipyj, cfr. Quaderni di Cristianità, I, n.2, 1985, pp. 26-44;
Ivan Choma, Josyf Slipyj, La Casa di Matriona – Aiuto alla Chiesa che Soffre, Milano 2001.
Josyf Slipyj “Vinctus Christi” et “Defensor Unitatis”, Universitas Catholica Ucrainorum S. Clementis Papae, Roma 1997.
Idem, Josyf Slipyj. Padre e confessore della Chiesa Ucraina martire, Aiuto alla Chiesa che Soffre, Roma 1990.
Idem, Josyf Cardinale Slipyj. 1892-1984. Una Imitazione di Cristo, numero speciale di Eco dell’Amore, n. 2, marzo 1985.
IL TIMONE – Aprile 2014 (pag. 52-53)
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