Alcune comunità carmelitane hanno rinvigorito missione e liturgia. Con iniziative originali e celebrando la Messa anche nel rito antico. E il popolo cattolico che hanno in cura apprezza. Vediamole
«Una volta uscito da Gorgonzola – scriveva Manzoni di Renzo Tramaglino – abbandonò la strada maestra e proseguì il suo cammino per una strada secondaria alla ricerca dell’Adda». Anche chi oggi andasse da Milano a Bergamo e scegliesse di lasciare l’autostrada per raggiungere l’Adda, che scorre sotto il cavalcavia all’altezza di Trezzo, si troverebbe di fronte a un santuario degno di una pagina dei Promessi Sposi: quello della Divina Maternità a Concesa. Le sue origini risalgono a una fonte miracolosa sgorgata su un prato, alla devozione popolare che suscitò e che fu coronata dalla costruzione di una chiesetta agli inizi del ’600. Dentro vi fu posto un dipinto – anche quello giudicato di bellezza sovrannaturale, vista la scarsissima abilità del pittore a cui era stato commissionato –, una Madonna con un seno scoperto che allatta Gesù bambino. Il santuario e l’annesso convento furono poi donati nel 1647 ai Carmelitani scalzi, che da allora, tranne per due parentesi nell’800, non se ne sono mai andati.
Negli ultimi cinque anni la comunità di Concesa, formata da quattro padri e un fratello, è diventata oltre a un’oasi di p r e g h i e r aanche la protagonista di un’esperienza liturgica che vale la pena segnalare.
La sua chiesa adagiata sulle rive dell’Adda è infatti uno dei pochissimi luoghi nell’enorme diocesi di Milano in cui si celebra settimanalmente – il sabato sera alle ore 17 – la Messa in rito antico. Qui si sono fermati a tenere conferenze anche alcune delle personalità che più si sono esposte sull’importanza del ripristino dell’antica liturgia: da mons. Nicola Bux, ben noto ai lettori del Timone, a mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, a mons. Athanasius Schneider, segretario generale della Conferenza episcopale del Kazakistan.
Una caratterizzazione liturgica e non solo che farebbe pensare alla presenza di qualche carmelitano “tradizionalista”, mentre il motivo è più semplice e significativo.
Padre Giorgio Maria Faré, 40 anni, una gioventù trascorsa a Gorgonzola, tra oratorio ed esperienze di volontariato sia in ospedale che in carcere, è oggi il superiore a Concesa. E racconta: «C’è sempre stato nel nostro convento un grande amore per la liturgia. A un certo punto alcuni fedeli hanno chiesto di poter partecipare alla Messa in rito antico. Dopo esserci confrontati in comunità ci siamo detti: perché non offrire questa possibilità?». Sul fatto di essere andati volenti o nolenti controcorrente, padre Giorgio ribatte con molta tranquillità: «Che dei sacerdoti seguano il Papa a me sembra una cosa ovvia. Abbiamo comunque osservato con scrupolo le indicazioni del Santo Padre, evitando qualsiasi gesto che potesse generare polemiche o incomprensioni ». Di carmelitani che sanno celebrare nel rito straordinario oggi ce ne sono due, lo stesso padre Giorgio e padre Alberto. Entrambi hanno imparato dopo il Summorum Pontificum. «Il rito romano nella sua forma straordinaria mi ha arricchito moltissimo – dice sempre padre Giorgio – e sono convinto che in generale aiuti a celebrare meglio con il Novus Ordo». Alla domenica mattina la Messa è appunto nel rito romano ordinario, ma celebrata coram Deo, cioè verso il tabernacolo e con la consacrazione in latino. Anche chi non partecipa alla Messa in rito antico, spiega padre Giorgio, apprezza molto una serie di segni: «Innanzitutto il crocifisso sull’altare, poi la possibilità di ricevere la comunione sia in piedi e in mano, che inginocchiati e in bocca. Qui mi preme sottolineare un dato: da quando nel 2008 abbiamo introdotto l’inginocchiatoio più del 90% delle persone hanno spontaneamente iniziato a usarlo e a comunicarsi in questo modo». E quelli che ringraziano per questa opportunità aggiungono di essere contenti anche per un motivo che molti non immaginerebbero: «Perché vedono finalmente dei sacerdoti fare quello che fa il Papa durante le sue Messe».
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Per trovare un’altra fioritura sul monte Carmelo di cui si parla ancora poco, non serve andare in India o nelle terre del sud-est asiatico, basta spostarsi di qualche decina di chilometri da Concesa e arrivare a Brescia. È infatti nel convento carmelitano del capoluogo lombardo, in via del Castello, che ha preso vita nel 1993 un movimento allargatosi nel giro di vent’anni al Libano, al Belgio, alla Romania, alla Lituania, alla Spagna, da poco agli Stati Uniti, oltre a diverse province italiane: sono una quindicina le comunità tra Veneto e Sicilia, con nuovi gruppi che stanno nascendo a Firenze, Bologna e Roma. Il suo fondatore è un teologo, già direttore della rivista Communio, conosciuto soprattutto per le sue diffuse vite dei santi, cioè padre Antonio Maria Sicari.
A dire il vero, tutto parte più di vent’anni fa, agli inizi degli anni ’70, con l’incontro tra i carmelitani di Brescia e i giovani di Comunione e liberazione. Era il tempo, spiega padre Sicari, «in cui non si faceva ancora questione di carismi e della loro diversità, ma si assimilava l’idea stessa di movimento ecclesiale, tutta tesa a celebrare l’unità Cristo-Chiesa e la fierezza – culturale, caritativa, missionaria – di essere cristiani. Quegli anni li abbiamo vissuti da frati carmelitani, con un certo apporto della nostra specifica sensibilità e spiritualità, e con noi li hanno vissuti i nostri laici». Un pezzo di strada fatto insieme con i figli spirituali di don Giussani, insomma, per trovare un orientamento nel subbuglio e nello smarrimento del post-Concilio. Con l’arrivo degli anni ’90 è stato però chiaro a tutti che una certa emergenza era finita, che la missione di Cl era ben definita e che anche per i carmelitani era tempo di rielaborare il bene ricevuto e di camminare con le proprie gambe, o meglio con il proprio carisma. Secondo padre Sicari, per continuare quella storia non era più sufficiente la collaborazione classica tra religiosi e laici, più che matura all’interno del Carmelo anche grazie al Terz’ordine. Quello di cui c’era bisogno era una formula diversa, quella di movimento appunto, ossia «l’idea di una storia guidata, portata avanti assieme, con una catechesi costante». Quest’ultimo punto è stato sviluppato nel Mec – così è abbreviato dai suoi appartenenti il Movimento Ecclesiale Carmelitano – con l’appuntamento settimanale della Scuola di cristianesimo, che ricorda anche nel nome la metodologia giussaniana delle scuole di comunità, a cui si affiancano la Messa settimanale e altri momenti meno frequenti come gli esercizi spirituali. A quelli tenuti lo scorso maggio a Lignano Sabbiadoro erano presenti quasi duemila persone da diversi Paesi. Esercizi per famiglie intere, con una predicazione separata per bambini, giovani e genitori. Tipico del Mec è anche l’attenzione alla vita dei santi, un marchio di fabbrica che risale ai primi anni ’80. In un momento in cui le prediche sembravano vacue e altre proposte pastorali mostravano la corda, fu padre Sicari a proporre di leggere nelle Messe di quaresima, al posto dell’omelia, la vita di un santo. L’idea ebbe un successo clamoroso e non fu più abbandonata. Oltre a questo va segnalato anche l’impegno missionario, che ha visto il Mec assistere all’estero opere già iniziate dai carmelitani o, tramite la propria associazione a Punto Missione, contribuire a crearne altre ex novo, come il villaggio dei ragazzi a Ciocanari, in Romania.
Spiritualità, comunità e missione: sono questi tre punti cardinali di una realtà ancora giovane, ma che nello slancio e nell’adesione serena al magistero sembra voler confermare quanto scriveva Hans Urs von Balthasar, il teologo incrociatosi con padre Sicari nell’esperienza di Communio: «Negli ultimi tempi, nessun Ordine religioso sembra essere stato più favorito del Carmelo di speciali grazie con carattere di missione, grazie che rappresentano indubitabilmente un monito e un contrappeso alle correnti in atto nella Chiesa e nel mondo contemporaneo».
IL TIMONE N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 28 – 29
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