Avviso subito che sto scrivendo questo pezzo mentre il caso delle dimissioni dell’arcivescovo di Varsavia, Stanislaw Wielgus, è ancora incandescente. Poiché presumibilmente non sarà l’unico e poiché esso ha scandalizzato molti buoni cattolici, ritengo sia giusto occuparsene qui.
Ho davanti agli occhi l’agenzia Zenitche a metà gennaio ha anticipato e tradotto un’analisi che il giornalista polacco Wlodzimier Redzioch pubblica in inglese sul numero di febbraio del mensile «Inside the Vatican». Per la sua acutezza merita di essere ripresa e rilanciata.
Tanto per cominciare, non tutti sanno che ai tempi del comunismo in Polonia esisteva lo speciale Dipartimento D che, dal ministero degli interni, combatteva «il clero reazionario». Cioè, la Chiesa. Da esso dipendeva l’Ufficio C, che rastrellava qualunque tipo di informazione utile sui «sospetti». I preti meno malleabili li si processava senza complimenti per attività antistatale e connivenza con una «potenza straniera», cioè il Vaticano. Gli altri si cercava di ricattarli, prendendo accurata nota delle loro umane debolezze e, quando era il caso, mandando donne ad adescarli. A quelli che cadevano in tentazione veniva proposto di collaborare fornendo informazioni sui fedeli, sul vescovo, sulle attività ecclesiali; insomma, su tutto quel che i servizi segreti ritenevano interessante per i loro scopi.
Con i vescovi il sistema era leggermente diverso. Nel caso in cui l’episcopato o il primate avessero preso qualche posizione pubblica sgradita al regime, ciascun vescovo veniva avvicinato e gli si chiedeva di prendere le distanze, magari offrendogli il sospirato permesso di costruire una nuova chiesa. In caso contrario, ecco che l’amministrazione delle sue parrocchie veniva passata al crivello e i suoi seminaristi sotto la naja torchiati a dovere dai superiori e/o dal nonnismo. Le lusinghe potevano riguardare anche la fornitura di carta (completamente controllata dallo Stato) alle pubblicazioni cattoliche. A volte i direttori di queste ricevano il permesso dai superiori, se religiosi, di passare informazioni innocue – per esempio sui loro redattori – pur di poter aumentare le tirature, cosa che veniva ritenuta importante ai fini dell’apostolato. Si sceglieva, cioè, il male minore. Se preti, vescovi e missionari avevano necessità di andare all’estero, allora il ricatto riguardava i passaporti, che non di rado venivano ottenuti dal clero implicato col solito sistema della cessione di informazioni di poco conto.
Questo fino al 1989, quando la Chiesa mediò l’accordo tra il regime e Solidarnosc per il passaggio alla democrazia senza spargimento di sangue. In cambio, i comunisti ottennero totale impunità sia per loro che per quanti li avevano fedelmente serviti (intellettuali, giornalisti, magistrati, docenti, artisti, eccetera). Come ha denunciato il cardinale Glemp, grazie a questo patto oggi si può rovesciare la frittata e mettere sotto accusa la Chiesa ma non gli oppressori storici di essa e dell’intero popolo polacco, oppressori oggi indisturbati e pure in posizioni di tutto rispetto. Infatti, all’apertura degli archivi si sono presentati i giornalisti, non gli storici e nemmeno le vittime del passato regime. E la Chiesa, dopo mezzo secolo di resistenza al comunismo, ora si vede processata per collaborazionismo. Da baluardo a traditrice, dunque.
Guarda caso, l’attacco segue immediatamente la morte del «papa polacco», figura ingombrante la cui uscita di scena era evidentemente attesa per sferrare il primo colpo. Ne fa le spese il domenicano Konrad Hejmo, responsabile dei pellegrinaggi polacchi a Roma. Il secondo colpo, dopo la visita di Benedetto XVI in Polonia, riguarda un gruppo di sacerdoti di Cracovia vicini a Wojtyla e al cardinale Dziwisz. Terzo colpo: Wielgus, subito dopo la sua nomina alla carica ecclesiastica più prestigiosa del Paese. Quando furono aperti gli archivi, ora conservati presso l’Istituto della Memoria Nazionale, la conferenza episcopale polacca creò una commissione storica per il loro studio. A quest’ultima si rivolse Wielgus allorché la «Gazeta Polska» lanciò la campagna contro di lui. La commissione suddetta ci ha messo, stranamente, solo ventiquattro ore per analizzare ben novanta documenti (tanti sono quelli che compongono il dossier su Wielgus) e confermare le accuse. Ebbene, tutto lascia supporre che le informazioni passate da Wielgus ai servizi in nulla differissero da quelle solite, ininfluenti, che il clero polacco era uso fornire per evitare il peggio. Un comportamento, questo, non molto diverso dall’intera «Ostpolitik» con cui la Santa Sede cercò per settant’anni di convivere con il blocco sovietico. Si trattava, infatti, della sopravvivenza delle Chiese locali e si procedeva con l’ac-cettazione di vescovi graditi al regime perché era pur sempre meglio che lasciare le diocesi senza vescovo. La stampa polacca, a sua volta, ha atteso la rinuncia di Wielgus per assolvere dall’accusa di collaborazionismo Malgorzata Niezabitowska, già attivista di Solidarnosc e poi portavoce del premier Mazowiecki. I documenti che la riguardavano erano stati falsificati appunto per screditarla.
Così, qualcuno ha cominciato a chiedersi se sia il caso di dar credito a tutte le carte dei servizi comunisti, visto che molte venivano gonfiate ad arte ed altre erano frutto della fantasia di agenti che intendevano solo farsi belli coi superiori. Lo ha detto chiaro e tondo Leszek Miller, ex premier comunista. Ma, se lo dicono i preti, non si crede loro. Appare verosimile che qualcuno a un certo punto abbia messo in mano a certi giornalisti il dossier Wielgus. Infatti, di media anticlericali in Polonia ce ne sono. Il guaio è che anche giornalisti cattolici e pure qualche prete si sono accodati. Vecchia storia: per «purificare» la Chiesa si è linciato monsignor Wielgus fino a metterlo fuori gioco. Temiamo che sia solo l’inizio di una vendetta in grande stile contro l’unica forza che abbia realmente combattuto per la libertà e la democrazia in Polonia.
IL TIMONE – N.60 -ANNO IX – Febbraio 2007 pag. 18-19