Un discorso da leggere integralmente. Due interpretazioni in conflitto del Vaticano II. Benedetto XVI ricorda che la vera riforma non divide la Chiesa in prima e dopo.
Il discorso che il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto il 22 dicembre scorso alla curia romana mi sembra uno di quelli destinati a “rimanere” nel tempo.
Le indicazioni sono molte. Una riguarda il tema dell’adorazione eucaristica, di cui il Papa ricorda l’importanza e la bellezza, anche indipendentemente dall’accostamento alla comunione eucaristica. È una grande consolazione soprattutto per chi ha “resistito” per decenni a praticare questa forma di adorazione plurisecolare e tanto significativa nel mondo di oggi, anche perché ricorda il valore del silenzio adorante davanti al Creatore e Signore del mondo e della storia, che ha scelto di rimanere accanto alla Sua Chiesa fino alla fine del tempo, “nascosto” in una piccola ostia offerta all’adorazione degli uomini.
Ma il discorso è soprattutto dedicato alla celebrazione dei quarant’anni dalla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, conclusosi appunto a Roma l’8 dicembre 1965.
Per fare memoria di questo avvenimento – il più importante nella vita della Chiesa del Novecento – il Pontefice ha ricordato come una delle maggiori cause delle difficoltà interne alla Chiesa verificatesi negli anni postconciliari sia dovuta al predominio dell’interpretazione dialettica del Concilio, che avrebbe segnato una svolta radicale nella vita della Chiesa, una vera e propria rivoluzione, un momento di rottura fra l’epoca precedente e quella successiva al triennio 1962-1965 nel quale si sono svolti i lavori conciliari. Questa interpretazione, che Benedetto XVI chiama «ermeneutica della discontinuità e della rottura», ha creato confusione e contrapposizioni laceranti, grazie anche all’appoggio dei mezzi di comunicazione che hanno pesantemente influito su una opinione pubblica in molti casi colpevole di aver accettato l’interpretazione senza neppure conoscere direttamente i testi integrali. Così molti, anche fra i sacerdoti, si sono convinti che i contenuti dei documenti conciliari corrispondessero a quanto veniva pubblicato dai giornali o ascoltato da radio e televisione, prescindendo dai documenti. Il Concilio è così diventato il principale motivo di conflitto fra chi lo esaltava come l’evento che ha liberato la Chiesa dall’oscurantismo medioevale o dalla Chiesa costantiniana e una piccola minoranza tradizionalista che si è andata progressivamente “chiudendo” nel proprio “recinto protetto” per difendersi dalle contaminazioni della Chiesa conciliare. Ne ha patito soprattutto la caratteristica missionaria della Chiesa proprio negli anni in cui il Magistero, con l’esortazione apostolica di Papa Paolo VI Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), portava un importante contributo all’inizio di una nuova evangelizzazione. Di questa triste storia postconcliare il Timone si è occupato nel dossier del mese di dicembre 2005.
A questa ermeneutica il Papa contrappone l’«ermeneutica della riforma», che al contrario dell’altra, silenziosamente, sta cominciando a portare dei frutti. Naturalmente, chi ha anche una superficiale conoscenza della storia dei concili nella vita della Chiesa sa quanti decenni e anche secoli furono necessari per fare penetrare nel corpo della Chiesa le riforme proposte dai venti concili precedenti il Vaticano II. E questo tempo postconciliare spesso fu attraversato da polemiche e divisioni, che non sono quindi una novità del dopo-Vaticano II. Tuttavia novità ci sono state nel Concilio e il Papa non le nega.
«Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità» (Benedetto XVI, 22 dicembre 2005).
È necessario aver presente il concetto di sviluppo per comprendere quanto accaduto (e quanto continua ad accadere) nel Magistero della Chiesa. Quest’ultima non è un “pensatoio” che elabora verità, ma la società voluta da Cristo per trasmettere il Vangelo della salvezza agli uomini. La Chiesa, guidata dal Signore ma composta da uomini, continua a comprendere sempre meglio il contenuto della Rivelazione, anche se il progresso non è necessario e ineluttabile come vorrebbe la vulgata progressista. E soprattutto continua a cercare le modalità più adatte ad annunciare la salvezza in un mondo storico, che cambia e condiziona le persone e le diverse generazioni che si susseguono. Ecco perché il Papa ha ricordato come nella Chiesa coesistano elementi di continuità e di discontinuità, principi duraturi e aspetti contingenti, e come nelle stesse società storiche vi siano stati sviluppi significativi.
Dunque siamo di fronte, sostanzialmente, a un unico problema, il rapporto fra la verità insegnata dalla Chiesa e la modernità. Anche quest’ultima, tuttavia, è cambiata e al suo interno sono maturate situazioni diverse. Il Papa ne ricorda una, peraltro ancora oggi di grande rilevanza per capire l’attualità, e cioè la differenza fra la rivoluzione americana e le «tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese». La progressiva percezione di questa differenza ha permesso, per esempio, al Vaticano II di formulare con la dichiarazione sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno ma anche in perfetta coerenza con l’insegnamento di Gesù (Mt 22,21), per cui l’uomo rimane capace e in dovere di cercare la verità, ma deve poterlo fare senza coercizione né pressione alcuna da parte dello Stato o di altra entità. Il principio della libertà religiosa è così un diritto della persona, creata libera e che solo liberamente può riconoscere e amare la verità, ma non significa assolutamente che tutte le religioni siano uguali.
Ma il fatto che la Chiesa abbia cominciato a tenere, con il Vaticano II, un atteggiamento di dialogo con il mondo moderno nato dalla Rivoluzione francese non poteva significare la fine delle tensioni e una ritrovata armonia fra la Chiesa e il tempo storico. Chi così avesse pensato – scrive Benedetto XVI – non ha tenuto bene in conto la fragilità umana post peccato originale e le contraddizioni insite nella stessa modernità.
Con il dialogo, che da sempre è il modo normale per aiutarsi a riconoscere e cercare la verità, la Chiesa ha inteso offrire all’uomo del suo tempo una possibilità migliore per accostarsi al Salvatore, non un “buonismo” infecondo e inutile.
RICORDA
«È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione.
È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare».
(Benedetto XVI, 22 dicembre 2005).
BIBLIOGRAFIA
Benedetto XVI, Discorso alla curia romana, 22 dicembre 2005 (
www.vatican.va). Cfr. anche il dossier A quarant’anni dal Concilio, in il Timone n. 48, dicembre
2005.
IL TIMONE – N.50 – ANNO VIII – Febbraio 2006 – pag. 58-59