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11.12.2024

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Il coraggio della verità
31 Gennaio 2014

Il coraggio della verità

 

 

 

Il relativismo paralizza l’Occidente di fronte all’Islam. Ma il declino del coraggio è il sintomo più evidente della crisi della ragione. Non mancano persone coraggiose, ma la società, e la cultura, sono governate dal «politicamente corretto». Che porta alla viltà.
 
 
Hanno ragione Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Magdi Allam quando dicono che l’Occidente di fronte all’Islam è in preda a una paura paralizzante, irragionevole e suicida.
Non si tratta solo della paura delle bombe, ma della paura di dire e difendere la verità. E’ un timore alle cui radici, insieme a quella malattia morale che è la viltà, c’è l’incapacità di capire e valutare la situazione, causata dal pensiero debole e dal relativismo. Come sempre il sonno della ragione genera mostri.
Quasi trent’anni fa Alexandr Solženicyn tenne ad Harvard un discorso giustamente famoso che, riletto a tanti anni di distanza, rivela una dimensione profetica. Solženicyn parlava allora di un mondo in frantumi a causa della contrapposizione tra mondo occidentale e mondo comunista, di una società del benessere che non trovava in sé la forza e le ragioni per difendere i valori su cui era fondata, a causa della paura di perdere il godimento del proprio benessere, e faceva risuonare con forza la domanda: « […] e allora ditemi: in nome di chi, a che scopo certuni dovrebbero strapparsi da tutto questo e rischiare la loro preziosa vita per la difesa del bene comune, specialmente nella nebulosa eventualità che si debba difendere la sicurezza del proprio popolo […]?».
I classici della nostra tradizione, sia filosofica che letteraria, traboccano di riflessioni sul tema del coraggio; tra tutti mi soffermo su un capitolo contenuto nella prima parte della trilogia di John Ronald Reuel Tolkien Il Signore degli Anelli, intitolato Il Consiglio di Elrond; in esso Tolkien offre un piccolo trattato sul coraggio come virtù civile, fondata sul retto giudizio ed espressione di una  volontà sorretta dalla speranza.
«Prenderò io l’Anello, ma non conosco la strada». Con queste parole semplici, ma non ingenue, Frodo assume la sua missione davanti ai rappresentanti di tutte le razze del mondo ancora libero dal dominio del malvagio Sauron, riuniti a Consiglio nella Casa di Elrond, signore degli elfi di Gran Burrone. Poco prima di pronunciare queste parole decisive, Frodo aveva sentito nel cuore un grande desiderio di riposo e di pace, la speranza che dopotutto non spettasse a lui compiere quel cammino difficile. Eppure gli pare necessario che qualcuno percorra la strada fino a Monte Fato, nel cuore del regno del nemico, unico luogo dove l’Anello avrebbe potuto essere distrutto. 
Nella lunga discussione che aveva preceduto questa decisione, erano state prese in considerazione e scartate le alternative possibili: usare l’Anello senza lasciarsi dominare da esso, oppure nasconderlo in un luogo inaccessibile. Elrond e Gandalf, lo stregone saggio, avevano messo in guardia sia verso la tentazione naturalista di confidare solo sulle forze umane, sia verso quella del disimpegno che s’illude di risolvere i problemi senza affrontarli. La meta non poteva essere raggiunta confidando sulla superiorità fisica, e perciò i deboli (dal punto di vista fisico) avevano la medesima speranza di percorrerla dei forti, e contemporaneamente era necessario trovare una conclusione definitiva al problema per non farlo ricadere sulle spalle delle generazioni future. La decisione prudente è alla fine quella di prendere l’anello e marciare diritti verso il pericolo per distruggerlo, perché è l’unica via che abbia senso. 
Frodo vede che tale compito spetta proprio a lui, nessuno glielo impone, ma egli lo riconosce e lo assume. Ha soppesato le ragioni presentate nel Consiglio, sa che si tratta di una scelta di cui non può prevedere tutti gli sviluppi possibili e che le sue capacità non bastano all’impresa. Inoltre ha paura, è assalito dalla tristezza e dalla pesantezza perché desidera starsene in pace. Ma il timore del male futuro, che ricadrebbe su tutti gli abitanti del mondo, lo determina a reagire al male, a tenere sotto controllo il timore e ad affrontare il pericolo.
In altre parole Frodo è coraggioso, non cade nella trappola della viltà, difetto di carattere tipico di chi teme (come dice Aristotele) «ciò che non si deve (temere) e come non si deve». Il coraggioso obbedisce alla ragione che gli ordina di sopportare la sofferenza derivante dal male temuto e di agire secondo il valore delle circostanze, in vista del buono e del bello.
L’audacia del coraggioso suscita la malevolenza di quelli che, in nome del «buon senso» o di triti luoghi comuni (del tipo: «la salute fisica è il primo bene da tutelare», «bisogna volere la pace ad ogni costo») travestono da scelta moralmente irreprensibile la vigliaccheria. 
Alla fine, a tutte le obiezioni viene data risposta, tutte le resistenze sono vinte, e, compiuta la scelta, Frodo e i suoi compagni si avviano per la loro strada. Ma si tratta di una strada che hanno potuto trovare perché conoscevano e amavano il fine verso cui insieme tendevano.
Il declino del coraggio, e la conseguente fiacchezza morale, è il sintomo più manifesto della crisi della ragione nell’attuale società occidentale. Ci sono molte persone individualmente coraggiose, ma la società, e la cultura nel suo complesso, sono governate dal «politicamente corretto», dalla conformità agli idoli del pensiero di moda e dalla conseguente incapacità di capire e giudicare la realtà del mondo così come essa è.
La cosa più grave è che questa fiacchezza morale si è diffusa tra i credenti, sia pastori sia fedeli, inquinandoli con una mentalità timida e pusillanime. I cristiani sanno che non devono scandalizzarsi se tra loro qualcuno agisce male, sia esso laico o sacerdote, perché tutti gli uomini sono peccatori; ciò che non può essere accettato è la giustificazione dell’errore basata su considerazioni teoriche nate dalla sudditanza culturale, dal servilismo e dal timore. Così dobbiamo ricordare che chi segue Cristo deve essere pacifico, ma non pacifista; la prudenza infatti ci insegna che ci sono delle situazioni umane, sociali e politiche che non possono essere passate sotto silenzio, come accade quando la persona è privata dei beni umani fondamentali. L’uomo coraggioso è tanto lontano dalla viltà e codardia, quanto dall’aggressività e dalla temerarietà.
Collocata in questa prospettiva, la questione del dialogo della Chiesa sia con la cultura laicista che con quella islamica si ridefinisce. Si tratta infatti di difendere e proporre dei beni che sono universali, cioè di ogni uomo e per ogni uomo. Proprio per la carità che deve ispirare l’agire di chi segue Cristo non bisogna avere paura di parlare, di dire la verità su ciò che è il bene dell’uomo. Bisogna riguadagnare la consapevolezza che ci sono delle situazioni che non dipendono dalla nostra volontà, situazioni in cui si è costretti a rischiare, mettendo in gioco la propria tranquillità e i propri beni per difendere beni più grandi senza cui l’uomo non può vivere e per i quali può essere anche necessario sacrificarsi. L’uomo coraggioso è anche nobile, sa rinunciare al proprio bene per il bene comune. La sua rinuncia non è amara, ma piena della speranza di poter riguadagnare in modo più pieno e vero ciò che ha volontariamente lasciato.

 
 
RICORDA
 
«Il coraggio è una cosa bella […] dunque è in vista del bello morale che il coraggioso affronta le situazioni temibili e compie le azioni che derivano dal coraggio».
(Aristotele, Etica Nicomachea, 1115b 22-24).
 
 
 
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
Aristotele, Etica Nicomachea, 1115a 4 – 1118b 7.
San Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-II. qq. 41-48.
John Ronal Reul Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani. 

 

 
 
 
 
N. 58 – ANNO VIII – Dicembre 2006 – pag. 30 – 31

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