Credo ci sia un pericolo sempre in agguato quando si parla di etica, cioè di quell’insieme di norme destinate a regolare la vita degli uomini nel rapporto con se stessi, con gli altri, con la società in genere.
Pericolo che esiste già per le leggi stabilite dal diritto dello Stato, leggi che, per loro stessa natura, colpiscono i comportamenti esterni ma non si propongono di raggiungere quel livello più profondo che attiene alla coscienza di ciascuno. E quando tentano di farlo diventano assai pericolose perché rischiano di dar vita a quello Stato Etico – sostituto di Dio – che spesso coincide con lo Stato di Polizia e che finisce inevitabilmente per limitare la libertà dei singoli, ottenendo spesso gli effetti contrari a quelli che ci si proponeva. Basti l’esempio del regime giacobino nato dalla rivoluzione francese che voleva instaurare una nuova moralità fatta di liberté, égalité, fraternité e che rovesciò le promesse in un inenarrabile terrore. Ma, ancor prima, la Ginevra di Calvi no, che il famoso riformatore cercò di trasformare in una città in cui il peccato veniva considerato un reato.
Diverso, invece, il caso delle norme morali che nascono da un credo religioso. Esse non hanno, almeno in ambito cristiano, dove Stato e Chiesa sono autonomi l’uno dall’altra, una qualche forma di controllo esterno. Però, esse mirano a raggiungere e ad impegnare coloro ai quali sono dirette fin nel profondo della coscienza, perché si propongono come scopo non solo e non tanto il rispetto esterno delle leggi quanto una adesione interiore piena e sincera. E se non esistono poliziotti che controllano e tribunali che puniscono come per le leggi statali, esiste però un efficace rimando a quel Giudice divino, misericordioso ma al contempo giusto che, Lui sì, conosce e scruta nel profondo reni e cuore di ciascuno.
«Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso con lei adulterio nel suo cuore» (Mt 5, 27-28). Il Vangelo è chiarissimo in questo passaggio, ma anche in molti altri punti, soprattutto quando Gesù se la prende con i farisei – sepolcri imbiancati – rei di osservare con grande attenzione la forma della Legge fin nei minimi dettagli ma di averne smarrito spesso e volentieri lo spirito.
Dovremmo dunque avere al proposito le idee chiare: ma chissà se è vero. Chissà se anche noi non rischiamo, più spesso di quel che crediamo e magari non avendone piena coscienza, di cadere in un altro pericolo, quello di trasformare il cristianesimo in un moralismo. Ciò, infatti, può avvenire ogni volta che quelle norme che la Chiesa, attingendo al Vangelo, ci propone come regola di vita, vengono da noi vissute per abitudine, per tradizione, per adeguamento al costume dominante in un dato ambiente, con un rispetto formale e non con una vera partecipazione interiore, con una adesione sincera e profonda. In questo caso, noi non agiamo per seguire davvero quella via che è al contempo verità e vita che Gesù ci ha insegnato – e che è lui stesso, la sua persona eternamente vivente e operante – ma guardiamo alla fede soprattutto come a un sistema di norme ecclesiali spesso percepite come un peso da rispettare con fatica quando non con fastidio.
Questo atteggiamento non è giusto non solo perché morale e fede o si intrecciano strettamente tra di loro sostenendosi a vicenda o non sono. Ma anche perché un cristianesimo trasformato in moralismo è una sorta di gabbia ideologica che racchiude e limita profondamente l’essere umano, restringendolo in un orizzonte soffocante. Gesù, il suo Vangelo, l’offerta di se stesso sulla croce, la redenzione da lui realizzata e testimoniata dalla sua risurrezione, restano su uno sfondo lontano e pressoché inoperante. Proprio come avveniva a quei farisei in Palestina che, scrupolosi osservanti della Legge ma poco aperti al Dio vivo, non sapevano riconoscere il Messia.
Così può accadere che, come dimostrano spesso i convertiti, Agostino di Ippona in testa, sappia “scoprire” davvero Gesù non l’osservante tiepido e senza slanci di un sistema di norme morali ma il peccatore pentito. Colui, cioè che, smarrendo ogni bussola, ha toccato quel fondo di disperazione e di angoscia nel quale si è ridestato il bisogno di Dio. Quel baratro da cui è nato un grido di invocazione, un bisogno autentico di redenzione. Quell’esperienza da cui nasce una autentica conversione.
Queste parole non vogliono evidentemente essere un invito a trasgredire, ma a capire il problema. E, forse, ad approfondirlo può aiutarci la situazione non facile che vive oggi il cristianesimo all’interno di una società come quella occidentale, che si sta progressivamente allontanando dalla morale evangelica, per secoli, almeno formalmente, osservata dalla maggioranza. Non credo, infatti, che si possa davvero resistere alla “nuova etica” laica che propone divorzi, aborti, eutanasie e quant’altro senza avere le idee chiare e il cuore al contempo saldo e caldo. Lo si poteva forse fare in epoca di cristianità dove i valori cristiani erano generalmente condivisi, anche se magari non amati. Ma non oggi.
Così, facciamo certamente bene a batterci perché questi valori permangano anche all’interno delle leggi dello Stato, perché è certo che legalizzare quello che, secondo l’ottica cristiana, è male aiuta certamente a diffonderlo. Ugualmente, facciamo bene a spingere la riflessione e la ricerca su questi temi etici agganciandoli al diritto naturale, al fine di trovare un terreno d’intesa anche con chi non sia cristiano o addirittura non credente. Tutto questo può certamente aiutare le persone di buona volontà a vedere più chiaro.
Ma credo anche che tutto questo non possa e non debba farci dimenticare la cosa che sempre è stata considerata assai importante in tutta la Tradizione della Chiesa: o la morale si aggancia strettamente alla fede o finisce prima o poi per diventare moralismo. E questo perché, per chi crede, le norme di comportamento non nascono solo da una riflessione razionale sull’uomo ma anche da quel “di più” costituito dalla Rivelazione. È quest’ultima infatti che, illuminandoci sul mistero di Dio e sul destino dell’uomo, ci aiuta davvero a capire perché vada inseguito un ideale così alto come la santità. Ma anche perché è solo una fede viva, alimentata dalla Scrittura, dal Magistero, dai sacramenti che ci dona la forza per andare contro corrente quando è necessario. Che ci sostiene nei momenti difficili in cui siamo tentati di mollare e di adeguarci. Quei momenti in cui la proposta cristiana, cattolica in particolare, ci sembra troppo esigente e ci parrebbe “ragionevole”, come ci suggeriscono tante sirene, essere più “umani”.
Invece no. Noi speriamo con vigore che Dio, come ha promesso, ci aiuti ad essere davvero coerenti con il Vangelo, che lo Spirito ci sostenga, ci illumini, ci purifichi, ci trasformi sempre più, affinché la nostra fede diventi ogni giorno più profonda e consapevole. Allora, la nostra vita non sarà il frutto di un perbenismo moralista ma un vero e autentico tentativo di rendere una testimonianza d’amore a quella Trinità Santa che per prima ci ha amato e desidera sopra ogni altra cosa unirci a sé.
«… un’opera materialmente insignificante fatta con ardente carità, soltanto per piacere a Dio, è molto più meritoria di un’azione importante realizzata con minore ardore di carità o per un motivo meno perfetto».
(Antonio Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Paoline, 1965, p. 225).
IL TIMONE – N. 54 – ANNO VIII – Giugno 2006 – pag. 56 – 57