Cristo ha rivelato la verità: su Dio, la creazione, l’uomo e tutti i viventi, noi stessi, la nostra origine e destino, la strada da percorrere per conquistare la vita eterna. Ma non se ne tiene conto. E c’è chi vorrebbe in cattedra i non credenti…
C’è una parola di Gesù tra le più decisive e impressionanti, una parola che va presa molto sul serio. Si trova nella così detta “preghiera sacerdotale”, posta a conclusione dei lunghi discorsi dell’ultima cena.
Nell’imminenza della sua passione redentrice, Egli apre il suo cuore al Padre e prega per ciò che gli è più caro. La frase è questa: «Consacrali nella verità» (Gv 17,17). Si tratta di coloro che crederanno in lui (e quindi anche di noi): si tratta dunque della sua Chiesa, che dovrà affrontare tutte le insidie e le difficoltà della storia.
Che cosa chiede al Padre? Che i suoi discepoli conservino sempre la loro sostanziale identità, che è quella di essere “consacrati”, cioè assimilati e uniti a colui che è “Santo”, cioè il Dio trino (che è Padre e Figlio e Spirito Santo) E la strada fondamentale per raggiungere e conservare questo risultato è, prima di ogni altra cosa, l’adesione alla “verità” e il suo tenace servizio.
Oggi questo impegno primario è nella cattolicità abbastanza insidiato. Si ha l’impressione che spesso gli venga anteposto ciò che è un secondo impegno, vale a dire l’attenzione al “mondo” e il dialogo con tutti anche con i più “lontani”.
Addirittura qualcuno è arrivato a parlare (ed è una novità significativa e inquietante) della opportunità che ci sia spazio nella cristianità per una “cattedra dei non credenti”. È una novità certamente “aperta” e generosa nell’intenzione, ma teologicamente infondata e pastoralmente insipiente.
Di qui l’esigenza di una riflessione come questa che stiamo facendo, perché ci aiuti a porre in evidenza e a recuperare fortemente l’insegnamento autentico del Signore Gesù.
1. Un dono e un impegno
L’uomo redento e rigenerato è consapevole che la sua fortunata avventura ha preso inizio proprio dal fatto che il Re dell’universo ha dissipato la nostra nebbia, ha squarciato le nostre tenebre e ci ha fatto dono della sua luce. Vale a dire, ci ha dato di conoscere la “verità”: la verità sul Creatore e sulla creazione, sull’umanità e su tutti i viventi, su noi stessi, sulla nostra origine e il nostro destino, sulla strada giusta da prendere per non mancare alla nostra mèta. Entrando col battesimo nella Chiesa, l’uomo riceve la cittadinanza di quella «nazione santa», nella quale (secondo la bella parola di Chesterton) «tutte le verità si danno appuntamento».
Questa «luce» è dunque una grazia che come tutte le grazie esige non solo la gratitudine del nostro cuore, ma anche una corrispondenza convinta e fattiva di tutto il nostro essere e di tutta la nostra vita. «Obbedire alla verità» (come dice san Paolo: Gal 5,7) è una connotazione irrinunciabile della vita battesimale.
2. Una distinzione irrinunciabile
«Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre» (Gn 1,4). Poiché l’Onnipotente ha cominciato così le vicissitudini del mondo, ogni allergia a discernere, ogni confusione tra ciò che è e ciò che non è, ogni bonaria mescolanza tra la verità e l’errore, ogni ritrosia a distinguere tra il bene e il male – lungi dall’essere l’aurora di una nuova era di comprensione, di comunione, di pace – è un cedimento all’assurda nostalgia del caos primitivo. Il credente è bensì esortato a gioire con chi gioisce e a piangere con chi piange (cf Rm 12,15). Ma non sta scritto da nessuna parte che egli deve anche dubitare con chi dubita e perdersi con chi si perde.
3. “Signoria” della verità
Nessuno dei battezzati – neppure chi è gravato delle più alte responsabilità di magistero e di governo ecclesiale – possiede la verità in modo da poterne disporre secondo i suoi calcoli e i suoi progetti. La verità è sempre “signora”: esige da noi un rispetto assoluto e una venerazione incondizionata; non può mai essere piegata al nostro servizio né al servizio delle cause da noi difese. Al contrario, dobbiamo sentirci noi i servi docili e fedeli della verità.
Non possiamo neppure privilegiare tra le diverse posizioni da assumere quelle che ci tornino più utili o ci diano meno fastidi o siano (come si usa dire) «politicamente più corrette».
4. Un’attenzione inestinguibile
Un’altra cosa da non dimenticare è che la sete della verità di Dio non si estingue mai nell’animo del cristiano. Ogni raggiunto orizzonte dischiude orizzonti nuovi e più spaziosi; ogni certezza acquisita germina interrogativi quotidianamente più penetranti. Siamo sempre in pellegrinaggio: chi ritenesse di aver catturato la verità una volta per tutte, dimostrerebbe con questo di essersene ampiamente allontanato.
Di qui la necessità della continua contemplazione della verità, che non deve finire mai, prima che sia concessa nella gloria la visione disvelata del Dio vero.
Qui sta anche la radice della necessità di una catechesi permanente: l’approfondimento della verità rivelata infallibilmente custodita dalla Chiesa deve essere offerta sempre a tutti, anche ai più semplici e ai meno dotti (che sono, del resto, i destinatari privilegiati dei misteri del Regno), anche a quelli che fossero incapaci di una lettura personale e diretta del Libro di Dio.
5. La “verità integrale”
La verità di Dio poi va amata nella sua integralità e nella sua armoniosa compiutezza. Il cuore davvero credente è affascinato dall’ortodossia e dalla sua capacità di far crescere lo spirito del credente e approssimarlo a Dio.
Le esasperazioni unilaterali delle singole verità; le amplificazioni dell’uno o dell’altro aspetto a scapito della totalità del tesoro rivelato; le eresie, per dirla con una parola schietta e antica, possono anche apparire più ricche di originalità e di genio, più gravide di pratiche implicazioni, più capaci di abbagliare le menti e di fare notizia, ma, non essendo la «verità tutta intera», non sono la divina ricchezza elargitaci dallo Spirito. E alla fine si scoprono sempre nella loro povertà e nelle loro conseguenze mortificanti.
6. La verità dovunque si trovi
La verità di Dio va amata tutta, dovunque si trovi. Il cristiano sa che solo il Signore Gesù è la «verità», e solo lo Spirito Santo è la fonte di ogni autentica conoscenza. Ma sa anche che lo Spirito riverbera la vera luce dovunque ci sia una mente umana che si apra alle sue folgorazioni; e sa che Cristo – nel quale tutte le cose sono state create, ed è venuto al mondo per illuminare ogni uomo – è la somma di tutti i valori, anche di quelli che si trovano nell’umanità apparentemente più lontana da lui e dal suo Vangelo. Perciò il credente è attento a ogni voce che risuona sulla terra e rispettoso di ogni enunciato nel quale ravvisi un riflesso, sia pure inconsapevole, della “buona notizia”. Come ripete san Tommaso: «La verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo » (Per esempio, Somma teologica I-II. q. 109: «Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est»).
7. Contro ogni errore e ogni menzogna
L’amore per la verità comporta una fiera e irriducibile ripugnanza per ogni presentazione sviata e deforme della realtà. Amare la verità vuol dire odiare la menzogna. Ritenere che la verità sia per noi cibo, respiro, vita, comporta la convinzione che l’errore conduce lo spirito alla morte per denutrizione, avvelenamento e asfissia. Mescolare verità e falsità, o trattare l’ortodossia e l’errore con la stessa distaccata cortesia, significa peccare contro la luce e in definitiva contro l’uomo.
Ci deve far riflettere a questo riguardo l’atteggiamento dell’apostolo san Giovanni, il cantore della carità. Egli sa che ogni autentico amore nasce dall’accoglimento della verità che salva; perciò è molto forte e reciso a prendere posizione contro tutto ciò che insidia la giusta fede. I discepoli devono saper distinguere tra lo spirito di verità e lo spirito dell’errore, e il criterio di distinzione è dato dalla consonanza con l’insegnamento apostolico (cf 1 Gv 4,6). «Voi siete da Dio, figlioli, – dice in 1 Gv 4,4 – e avete vinto questi falsi profeti» (cioè coloro che insegnano la falsità soprattutto a proposito di Cristo). «Costoro sono del mondo, perciò insegnano le cose del mondo e il mondo li ascolta» (1 Gv 4,5).
Nella seconda lettera arriva perfino a scrivere: «Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse» (2 Gv 9-10).
8. L’errore e l’errante
Naturalmente, bisogna sempre ricordare il principio, tanto ben richiamato da Giovanni XXIII, che impone di non far confusione tra l’errore e l’errante. L’errante va sempre capito, per quel che è possibile, va amato e aiutato; l’errore va sempre nettamente condannato.
La distinzione giovannea è commentata così, lucidamente e autorevolmente, da Giovanni Paolo II: «La comprensione e il rispetto per l’errante esigono anche chiarezza di valutazione circa l’errore di cui egli è vittima. Il rispetto, infatti, per le convinzioni altrui non implica la rinuncia alle convinzioni proprie».
E anche nei casi più difficili, bisogna «tenere simultaneamente presenti il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa cerca sempre di offrire, per quanto le è data facoltà, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui, e il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta né può accettare di chiamare bene il male e male il bene».
IL TIMONE N. 117 – ANNO XIV – Novembre 2012 – pag. 48 – 49
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