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14.12.2024

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Il destino degli infami
31 Gennaio 2014

Il destino degli infami

 

 

È singolare notare che, tra i vari personaggi del Vangelo, coloro che hanno perseguito un comportamento infame contro Cristo o gli apostoli hanno concluso la loro vita con un destino da disperati. Tipico è l’esempio di Giuda Iscariota, di cui l’evangelista Matteo riporta: «Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi».
Meno noto il destino di Erode il Grande, colui che ordinò la strage degli innocenti, e che però conosciamo attraverso lo storico Giuseppe Flavio (37- 100 dC): «Erode fu colpito da una gravissima malattia con cui Dio fece giustizia dei delitti da lui commessi: era un fuoco lieve, il cui calore esterno non dava neppure l’idea della sofferenza che dava alle parti interne; aveva il terribile desiderio di prendere qualcosa che gli potesse dare sollievo. Un’ulcera gli consumava gli intestini, e aveva tremendi dolori di ventre. Il respiro era faticoso ed […] era sofferente in ogni parte del corpo, come oppresso da una potenza invincibile. Gli indovini e coloro cui la saggezza concedeva di dire queste cose sostenevano che la malattia era la punizione divina per le molte empietà compiute dal re» (Antichità Giudaiche, XVIII, 168-170). I delitti verso avversari e perfino verso i propri familiari avevano infatti caratterizzato tutta la vita di Erode. Riguardo alla malattia che colpì il re, Giuseppe Flavio altrove aggiunge: «Egli tuttavia lottava contro simili sofferenze, attaccandosi disperatamente alla vita; sperava ancora salvezza e cercava rimedi. Attraversando infatti il Giordano, si bagnò, ma invano, nelle acque termali di Calliroe […]. Il parere dei medici fu allora di riscaldare tutto il corpo con olio caldo. Ma, fatto immergere in una vasca piena di olio, cadde e stramazzò al suolo strabuzzando gli occhi. Alle grida dei servi ritornò in sé e, avendo ormai disperato per il futuro la salvezza […], fece poi ritorno a Gerico, ormai irritato, ma lungi dal darsi per vinto dinanzi alla morte, intento com’era nel progettare un’altra empia opera: ordinò infatti di rinchiudere tutti gli uomini illustri, radunati da ogni villaggio dell’intera Giudea, nel luogo detto Ippodromo» e là li fece trucidare, perché, come egli stesso diceva «tutta la Giudea ed ogni casa pianga per me, anche contro la propria volontà» (Guerra Giudaica I, 656-660). Non soddisfatto, il re si fece portare il suo terzo figlio e ne provocò la morte alla stregua dei primi due già assassinati. Infine «tormentato di nuovo dal bisogno di cibo e da una tosse spasmodica, vinto dai dolori, decise di anticipare il destino. Presa una mela, chiese anche un coltello, perché soleva tagliare ciò che mangiava; e guardando poi intorno che non ci fosse nessuno ad impedirglielo, alzò la destra e si colpì a morte» (ibid, I, 662).
Non fu però meno infelice il destino di Ponzio Pilato, colpevole di aver lasciato crocifiggere Cristo. Eusebio di Cesarea (265-340) scrive infatti: «Non è bene ignorare che al tempo del Salvatore, come si dice, lo stesso Pilato, sotto Gaio, il cui tempo stiamo illustrando, fu colto da tali mali da suicidarsi, divenendo così punitore di se stesso; la giustizia divina infatti lo raggiunse dopo poco tempo, come era verosimile. Raccontano ciò gli storici greci che, scrivendo la serie delle Olimpiadi, hanno fatto un’esposizione ordinata di ciò che accadde in ciascuna di esse» (Storia Ecclesiastica, II, 7,1).
Quanto ad Erode Antipa, che aveva fatto imprigionare il Battista nella prigione di Macherunte per poi decapitarlo, in quanto il profeta gli rimproverava l’adulterio verso la sua legittima moglie, la figlia di Areta re della Il destino degli infami Nabatea, fu poi sgominato dallo stesso Areta, che si sentì tradito, e pertanto gli mosse guerra annientando tutto il suo esercito e costringendolo in esilio perpetuo verso l’Europa, assieme all’amante Erodiade (ibid I, 11,1-3). Secondo Eusebio anch’egli morì poi in modo straziante.
E pure Erode Agrippa, che aveva perseguitato la Chiesa e fatto trucidare l’apostolo Giacomo (At 12,1-2), andò incontro a un destino disperato. Gli Atti degli Apostoli riportano solo che morì d’improvviso «per non aver dato gloria a Dio» (12,23), ma sia da Giuseppe Flavio sia da Eusebio veniamo anche a sapere che il re, recatosi a Cesarea durante il terzo anno del suo regno in Giudea per presenziare un ciclo di festeggiamenti all’imperatore, «nel secondo giorno dei festeggiamenti, sul far del giorno, si presentò nel teatro con una veste, stupenda a vedersi, fatta tutta d’argento. Il quale, illuminato dai primi raggi del sole, meravigliosamente risplendette, destando non so qual timore in coloro che lo fissavano. Subito gli adulatori, chi da un lato chi dall’altro, lo invocavano come un dio con alte grida, che segnarono l’inizio della sua rovina. Dicevano: “perdonaci se fino ad oggi ti abbiamo riverito come uomo: d’ora in poi proclameremo che tu sei di natura superiore a quella di un mortale”. Il re non biasimò né respinse l’empia adulazione, causando così la propria rovina. Sollevato infatti poco dopo lo sguardo, vide un angelo sulla sua testa [cfr At 12,20-23]. Subito intuendo che egli, un tempo causa di beni, era in quel momento invece causa di mali, ebbe una fitta al cuore, a cui seguì subito dopo un dolore al ventre, insopportabile già dal primo sorgere. E allora, volto lo sguardo verso gli amici disse: “Io, che sono per voi un dio, ho ricevuto l’ordine di porre fine alla mia vita: il destino infatti ha reso subito vane le vostre false grida di lode. Io, che da voi sono stato acclamato immortale, sono ormai colpito dalla morte” ». (Eusebio, op cit II,10; G. Flavio, Antichità Giudaiche, XIX, 343-351). Subito fu condotto alla reggia, ma, dopo cinque giorni di atroci sofferenze, morì. Aveva 54 anni.

 

 

 

 

IL TIMONE N. 100 – ANNO XIII – Febbraio 2011 – pag. 61

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