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11.12.2024

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Il dubbio di Calvino
31 Gennaio 2014

Il dubbio di Calvino

 

 

 

Uno degli scrittori italiani più celebrati – abortista e organico alla sinistra egemone – riscoperto in una delle sue opere meno note. Che racconta la giornata di uno scrutatore comunista dentro il Cottolengo di Torino.

Considerato dagli ambienti letterari internazionali il maggior scrittore italiano del secondo Novecento, Italo Calvino (1923-1985) rappresenta il caso esemplare di una indecisione tra la vocazione di intellettuale e di narratore. Egli non fu “artista” sino in fondo poiché non si concesse mai alle esigenze imperiose della vocazione artistica; e la sua opera è lì a testimoniare di questa ambiguità di fondo: pagine apprezzabili, lavori ben costruiti, la cui architettura è fredda, il cui disegno è cerebrale, la passione espressiva appare quasi sempre senza sangue.
Perché scandalizzarsi? È la cifra stilistica di altri presunti grandi scrittori contemporanei, come Alessandro Baricco, per esempio.
Del resto, il sistema dell’industria culturale italica ed europea soffre, da almeno tre decenni, di una strana inclinazione: preferisce ai geni i babbei, e stampa prevalentemente i libri di questi ultimi. Che cosa può dire un’intellighenzia come la “nostra”, che ignora chi siano Guardini, Boine e Gómez Dávila e si proclama tuttavia cittadina del mondo? Miopia e pedanteria sono la base dell’insegnamento scolastico superiore, da decenni: per questo, lo studio della letteratura così come è stato effettuato nella scuola italiana ha favorito negli studenti la tendenza allo sradicamento. Il professore di liceo sciorina ogni anno un “programma”, cioè una
rassegna storica, testuale, tematica di autori e opere, e lo insegna come se avesse un senso: invece non c’è logica alcuna che leghi Alfieri, Carducci, Svevo.

La giornata di uno scrutatore
Quando nel 1963 questo romanzo breve fu pubblicato, composto lungo dieci anni di sofferta riflessione, esso era l’opera di Italo Calvino più a lungo meditata, eppure oggi pochi lo conoscono e lo apprezzano. E meno ancora sono coloro che accostano gli altri libri della trilogia: La nuvola di smog e La speculazione edilizia; titoli non certo invitanti ma indicativi di un problema inedito in Calvino: l’urgenza del presente. È probabile che, data la spietatezza con cui questi libretti analizzano la crisi dell’uomo marxista, l’occultamento di questi testi dalle antologie scolastiche risponda ad una vera e propria scelta ideologica, tesa a mascherare il punto nodale irrisolto della poetica di Calvino. Difatti, qui l’intellettuale gramsciano, fedelissimo funzionario dell’editrice Einaudi, dovette fare i conti con degli interrogativi generalmente assenti dagli ordini del giorno del PCI togliattiano: vale a dire, le intimazioni della coscienza.
Nella Giornata di uno scrutatore il “groppo lirico” dell’ispirazione ha una forma irrisolta. È quasi il diario di uno scrutatore del Partito Comunista che, impegnato ad evitare i possibili raggiri elettorali della Democrazia Cristiana al seggio elettorale nell’istituto Cottolengo di Torino, rimane imbrigliato in un’umanità mai vista prima: la “famiglia” dei malati e dei religiosi che li assistono per vocazione. La vicenda si svolge nel 1953, anno delle prime elezioni con la cosiddetta “legge-truffa”, e il protagonista è Amerigo Ormea. Costui, inizialmente rigoroso nel controllo dei voti e nell’indagine sulla reale autonomia dei votanti – persone deformi, minorate, handicappati – pian piano si lascia sorprendere dalla cura delle suore e dei preti nei confronti degli sventurati, ed è colpito da una letizia a lui ignota. Avvinto da quell’agire concreto, il protagonista incomincia a interrogarsi su un modo di fare così diverso dalla materialità del suo marxismo.

Lo scetticismo è insufficiente
Per bocca di Amerigo, qui Calvino pone le domande sul ruolo dell’intellettuale organico all’ideologia di sinistra, senza ottenere dalla propria coscienza nessuna risposta convincente; ma questo è il dramma di tre generazioni di italiani: non avere niente da dire o da fare, di fronte al dolore innocente così come colpisce i nostri cari o gli estranei nelle corsie di un ospedale. Se un uomo “imperfetto” nasce per soffrire senza scampo per tutta l’esistenza, perché metterlo al mondo?, si domanda la mentalità illuministica, perché non intervenire con l’aborto?
L’ideologia radicale non ha compiuto alcun progresso, in quest’ultimo mezzo secolo. Calvino stesso deciderà in seguito che la disillusione è sempre maggiore di qualunque impegno, e deciderà di metterci “una pietra sopra”. Il testo de La giornata di uno scrutatore costituisce tuttavia il suo momento più elevato e più profondo: è in simile contesto che l’autore si chiede per quale motivo lui sia nato come “un cittadino responsabile” invece che come “quell’idiota che veniva avanti a votare ridendo come se giocasse”; e poi, guardando la letizia delle suore dipinta sulle foto delle loro carte d’identità, si domanda: “una beatitudine esiste? (e se esiste allora va perseguita?)”.
Nell’alternativa apertasi, per Amerigo, tra lo scandalo di “riconoscere Dio in un uomo inchiodato a una croce” e l’incapacità della sua ideologia rivoluzionaria di ridare “le gambe agli zoppi, la vista ai ciechi”, il libro mette in atto la domanda: “da che punto in poi un essere è davvero un essere? Da che punto un essere umano è umano?” si domandava un Italo Calvino sbigottito, che aveva davvero prestato servizio come scrutatore al seggio torinese del Cottolengo.
Benvenuto nel mondo, verrebbe da dirgli, con il candore di una maestra di catechismo.
Ma Calvino riuscì anche ad articolare una personale risposta: fu formulata a tentoni di fronte a l’invadente rigurgito di quegli uomini imperfetti. Prima, fu solo un’accusa “a tutti quelli che procreano” e la proposta di una “contraccezione generale” per evitare quegli sbagli di natura: è la risposta della coscienza moderna ovvero rivoluzionaria.
Ma ci fu anche l’intuizione della palese grandezza dell’amore: l’amore donato dalle suore a quei ragazzi perché “l’umano arriva dove arriva l’amore; e non ha altri confini se non quelli che gli diamo”.
L’amore, come suggerito nell’anagramma del cognome Ormea, diventa l’oggetto della propria identità: non come possesso (il protagonista mostra una cinica indifferenza per la sua compagna Lia) ma come un mistero a cui ogni persona appartiene ed è destinata.
Il libro non si conclude infatti con un epilogo narrativo, bensì con il perdurare delle domande: e c’è la scena del padre che assiste suo figlio disabile che resta impressa nella mente di qualunque lettore.
Amerigo Ormea rimarrà però confuso nella tristezza degli indecisi. Per questo il finale accenna soltanto, in un vago sapore agostiniano, all’imprevedibile che, pur in quel luogo di pena, si è fatto realtà: Calvino si arresta sulla soglia del fatto cristiano, nel momento in cui “anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città”.

Agostino Benedetto Cottolengo nacque a Bra (Cuneo) il 3 maggio 1786 e morì a Chieri il 30 aprile 1842. Primogenito di dodici figli, di cui sei morirono in tenera età, apparteneva a una famiglia della media borghesia. Il 2 settembre 1827 si verificò la svolta fondamentale della sua vita: sacerdote, fu chiamato al capezzale di una donna, madre di tre bambini, non accolta negli ospedali cittadini e fu spettatore della sua morte. Fortemente colpito dal triste episodio e dopo una particolare preghiera nella chiesa del Corpus Domini a Torino davanti al quadro della Madonna delle Grazie, decise di dare inizio a una piccola infermeria per evitare il ripetersi di simili casi. Nel 1832 aprì in Borgo Dora la sua attività caritativa sotto il nome di Piccola Casa della Divina Provvidenza sotto gli auspici di San Vincenzo de’ Paoli, in seguito comunemente detta “il Cottolengo”. In tale istituzione accolse malati esclusi dagli altri ospedali, persone disabili, epilettici, sordomuti, invalidi. Cottolengo sostenne la sua Opera fidando unicamente nella Divina Provvidenza la quale, come egli scrisse al Re, “per lo più adopra mezzi umani”, cioè la carità dei benefattori. Verso la fine del 1833 diede inizio a una comunità di religiosi laici, i Fratelli, e successivamente, fondò una comunità di sacerdoti. Negli ultimi anni della sua vita, tra il febbraio 1840 e il giugno 1841, fondò anche cinque monasteri di vita contemplativa. Come motto della Piccola Casa Cottolengo pose la frase di San Paolo “Caritas Christi urget nos”. La Chiesa lo ha proclamato “santo” nel 1934.

IL TIMONE – N.50 – ANNO VIII – Febbraio 2006 – pag. 52-53
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