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14.12.2024

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Il fascino del Padre
31 Gennaio 2014

Il fascino del Padre

 

 


«Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse » (Gv 14,8-11)

Siamo abituati a pensare che “Il Principio e la Fine”, “L’Alfa e l’Omega” siano Gesù e certamente non è sbagliato: lo dice infatti lui stesso espressamente di sé nell’Apocalisse «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,13). Non è sbagliato, ma è limitato… Ci dimentichiamo da dove viene questa prerogativa del Verbo incarnato. Essa viene dal Padre, da cui tutto proviene.
Del Padre ci siamo un po’ dimenticati. In passato, soprattutto nel Novecento, l’attenzione si è andata concentrando sulla Persona di Gesù Cristo. Questo “Cristocentrismo” era ed è un fatto molto positivo. Purché però non diventi esclusivo… e quindi “esagerato”, cioè sottratto alla collocazione in un quadro che lo renda armonico, profondo e – quindi – bello. Gesù, isolato dalla Trinità, rischia di diventare solo un uomo, un grande, un grandissimo uomo, ma pur sempre un uomo, mentre il suo mistero è incomparabilmente più grande. In un tempo a noi più vicino l’attenzione si è provvidenzialmente portata sullo Spirito Santo, soprannominato a volte “il grande sconosciuto”. Ora è tempo che il quadro si completi andando con determinazione all’origine di tutto: il Padre.
Così ci insegna a fare la liturgia, in cui ogni preghiera si rivolge al Padre, per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Il Padre è il principio da cui tutto procede, mentre lui non procede da nulla.
È il principio senza principio. Ma non è solo il principio, è anche il fine di tutto: proprio pensando al Padre si comprende come non abbia senso mettere in alternativa passato e futuro. Un futuro senza passato, senza “memoria”, è un futuro “scriteriato”, cioè sprovvisto di “criterio”. È come un correre senza sapere da dove si viene e dove si va. La storia invece è come un circolo: tutto viene da Lui e a Lui ritorna. Non è però solo Qualcuno che sta al principio e al termine del percorso: è sempre presente, «Colui che è, che era e che viene». La storia è nelle sue mani, Lui la domina e la guida, è “l’Onnipotente”. Questo significa che se ne prende cura, è un Padre e quindi “provvidente”. «Perciò io vi dico: non affannatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?» (Mt 6, 25-26).
Dimenticarsi del Padre è molto grave: si finisce per perdere il senso della storia e quindi della Provvidenza. Ma si finisce anche per perdere il senso dell’autorità e dell’obbedienza. L’autorità non è solo una dura necessità del vivere in società. Una funzione assolutamente necessaria, ma di cui in fondo in fondo si farebbe volentieri a meno. “Autorità” viene dal latino auctoritas, da augeo, aumento, accresco. L’autorità, quando non è mero autoritarismo, cioè quando è concepita come servizio, come modo concreto di esercitare l’amore, fa crescere e dunque dà qualcosa che nessun altro può dare. L’obbedienza davanti ad una autorità così concepita non è solo la dolorosa rassegnazione di chi non ha potere, ma è una virtù bella e gratificante che ti fa essere “figlio” e quindi “erede”. «Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio». Tutto quello che hai lo ricevi per amore e – quindi – per amore lo devi donare. L’obbedienza così intesa non è umiliante, ma espressione di dignità, onore e bellezza. Il Figlio, da tutta l’eternità, è quello che è in virtù della generazione del Padre, da cui procede. Questa obbedienza eterna si traduce per così dire “naturalmente” nella storia terrena di Gesù di Nazaret, Verbo incarnato: i discepoli lo pregavano: «“Rabbì, mangia”. Ma egli rispose loro: “Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. E i discepoli si domandavano l’un l’altro: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”. Gesù disse loro: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” […]» (Gv 4,31- 34). «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (Gv 7,16).
Chi è rivestito di autorità può capire allora che questa autorità non è “cosa sua”, ma gli viene dall’alto (Rm 13,1) e quindi dev’essere rispettata ovunque essa si trovi – in noi stessi e in coloro che sono sopra di noi e sotto di noi – ed esercitata come un servizio. Amare non vuol dire rinunciare all’autorità, o “vergognarsene”, ma esercitarla non per sé, ma con sacrificio di sé. Chi è sottoposto a sua volta può capire che l’autorità va non solo obbedita, ma anche rispettata ed amata. «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre! Questo è il primo comandamento che è accompagnato da una promessa: perché tu sia felice e goda di una lunga vita sulla terra. E voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore» (Ef 6,1-4).

 

 

 

 

IL TIMONE N. 97 – ANNO XII – Novembre 2010 – pag. 60

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