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14.12.2024

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Il figlio terminale
31 Gennaio 2014

Il figlio terminale

 

 

Sono in molti oggi a pensarlo: se un nascituro è gravemente ammalato, meglio sopprimerlo con l’aborto. Al contrario, più un figlio è sofferente e più grande deve essere l’amore dei suoi genitori. Farlo nascere è giusto e normale, come dimostrano le storie narrate da un medico vero.

 

 

“Il bambino non nato è il più povero tra i poveri” dice Madre Teresa. Il quarto voto delle Missionarie della Carità era proprio questo: servire i più poveri tra i poveri. Madre Teresa sentiva bene che la risposta più vera a questa come a tutte le forme di povertà è l’amore umile e paziente, cioè Gesù Persona, Gesù Amico, Gesù Presenza Dolce.
Quando un bambino non ancora nato, poi, presenta delle malformazioni, ci troviamo dinanzi a una povertà più grande e quindi c’è bisogno di un amore ancora più grande. Se, infine, le sue condizioni generali presentano malformazioni tali da renderlo “terminale”, cioè con anomalie che lo porteranno inevitabilmente alla morte o prima o subito dopo la nascita, ci troviamo dinanzi al massimo della povertà: allora, sullo stile di questa grande Santa, dobbiamo dare il massimo dell’amore.
Ma perché profondere tutto l’amore possibile per queste vite considerate inutili che, come meteore, si affacciano all’esistenza e poi molto precocemente ci lasciano? La risposta è che non possiamo arrogarci il diritto di dire quale vita sia più degna dell’altra, perché quando la madre perde “il figlio” perde la presenza del figlio, e non la sua lunghezza in centimetri, il suo peso in grammi o la sua efficienza e la sua bellezza. Inoltre non sappiamo quale progetto ha Dio per le vite di questi suoi figli, ma sappiamo che pur nella loro apparente inutilità, debolezza e infermità si cela il mistero dell’amore di Dio per i più piccoli e per i più diseredati. “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Matteo 11, 25).
Fabrizio, padre di Emanuele, nato con una sindrome polimarformativa e deceduto dopo 19 giorni dalla nascita, in una delle 18 testimonianze raccolte nel libro Il Figlio terminale (Giuseppe Noia, Edizioni Nova Millenium Romae, 2007) scrive che quando venne fatta la diagnosi e fu velatamente ma con molta naturalezza ventilata la “soluzione” dell’interruzione volontaria di gravidanza soffrì molto la solitudine che si creò intorno a lui e alla moglie: amici e conoscenti criticavano in maniera aperta la scelta di accompagnare il proprio bambino fino alla morte naturale e di non ucciderlo. In un momento di preghiera, aprendo la sua Bibbia, trovò queste parole che sembravano dette dal suo bambino: “Sono l’obbrobrio dei miei nemici, il disgusto dei miei vicini, l’orrore dei miei conoscenti; chi mi vede per strada mi sfugge… sono divenuto un rifiuto. Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda, quando insieme contro di me congiurano, tramano di togliermi la vita” (Salmo 31). Fu colpito enormemente e riaprendo di nuovo la Bibbia trovò la risposta che il suo cuore cercava: “Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato o Israele: non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo”. (Isaia 43, 1-4).
Per un uomo di scienza, parlare di un feto terminale è come parlare della propria sconfitta sul piano del curare, ma l’esperienza maturata in questi 30 anni mi ha insegnato che quando non si può curare con le tecnologie e con il sapere medico si può fare una medicina condivisa, una medicina cioè che si prende cura del problema e della sofferenza della gente attraverso la condivisione empatica di quel dolore. Non c’è più grande dignità e professionalità dello stringere la mano della propria paziente e parlare con una comunicazione non verbale: quando accettiamo i limiti del nostro operare diventiamo molto piccoli ma siamo nel contempo molto grandi! Cosa ha rivelato Dio di così grande a questi piccoli e fragili bambini non nati, per cui 5 famiglie, che non riuscivano ad avere gravidanze, hanno pregato Marianna, figlia di Laura e Luigi e deceduta dopo pochi minuti per una condizione di anencefalia, e hanno ottenuto il dono della maternità? Cosa ha rivelato di così grande Dio a questi piccoli se dopo aver ottenuto (col permesso dei genitori e del Comitato etico) l’espianto delle loro cornee, dopo morte avvenuta, per l’eventuale trapianto ad altri bambini che nascevano con opacità corneali e quindi potenziali non vedenti, cosa ha rivelato, ripeto, al punto che due adulti arrivati in emergenza al Policlinico Gemelli con gravi traumi corneali, necessitanti di trapianto urgente, sono stati trapiantati con le cornee dei due feti anencefalici che, attecchendo, hanno permesso poi di fare trapianti definitivi con donatori adulti. Due vite “inutili” hanno dato la vita degli occhi a due adulti.
Ci sono, inoltre, aspetti di natura psico-dinamica che spesso non vengono evidenziati e che invece vanno rilevati: con l’accompagnamento, innanzitutto non viene interrotto il progetto fondamentale che è la vita del bambino non nato, che è la vita del “figlio”; ma non viene interrotta altresì la vita “progettuale” di sogni, di speranze e di amore che i due coniugi avevano costruito dinanzi all’evento e che altri membri della famiglia (fratellini, sorelline, nonni) avevano elaborato dinanzi all’attesa. Più di 50 famiglie che in questi 15 anni hanno sperimentato l’accompagnamento di feti terminali testimoniano che c’è comunque e sempre un progetto. E che il frutto di questo “accompagnamento” è una grande pace e un’apertura an-cora più grande all’accoglienza e alla difesa della vita sia per le famiglie che hanno vissuto nella loro carne questa esperienza, sia per i medici che hanno “la grazia” di incontrare queste esistenze. Accogliere queste vite allora non è un’ esercizio eroico ma la “naturale” accettazione del “figlio” che la sana ragione umana e il sano cuore umano non possono negare.
L’Associazione la Quercia Millenaria nasce dall’amore vissuto nel dolore di famiglie che hanno creduto nel valore di sperare contro ogni speranza e nel credere che “Dio non toglie una gioia ai suoi figli se non per prepararne una più grande e più bella”.
La diagnosi prenatale di condizioni incompatibili con la vita ci apre sempre più al grande dilemma di come usare la conoscenza scientifica, ma spesso non ci prepara all’accoglienza della disabilità e anche alla sofferenza che l’accompagna, sia del bambino che dovrà nascere, che delle famiglie. Essa propone il termine di “feto terminale”: propone, cioè, una medicina senza speranza. Che cosa è la terminalità? Siamo veramente nati per “terminare”, o come dice Hannah Arendt: “Gli esseri umani, sebbene debbano morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”? Sì, pensiamo proprio che siamo nati per incominciare, e questo libro vuole esserne una dimostrazione. Questo lavoro nasce affinché il bene prezioso della vita sia difeso e amato, e affinché il dolore e la sofferenza vengano leniti dall’accoglienza e dalla professionalità degli operatori del mondo medico che attuano una medicina condivisa, una medicina che non dice solamente “io ti curo”, ma dice soprattutto: “io mi prendo cura di te”.

Dossier: Fatti di vita

IL TIMONE – N.64 – ANNO IX – Giugno 2007 pag. 36-37

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