La virtù, oggi intesa riduttivamente, è la capacità di orientare l’agire umano verso l’eccellenza morale e la felicità.
La parola «virtù» sta scomparendo dal linguaggio comune. Nelle poche occasioni in cui se ne parla viene perlopiù intesa secondo due accezioni pericolosamente riduttive, una «soprannaturalistica» e una «naturalistica».
L’uso «soprannaturalista» del termine nasce dalla svalutazione della dimensione naturale della vita, che viene concepita come qualcosa di separato e impenetrabile dai valori spirituali; da questa riduzione deriva una visione moralista e astratta della virtù, quasi si trattasse di un ambito determinato e delimitato della vita dell’uomo corrispondente allo spazio occupato dalle “opere buone”.
La tentazione «naturalistica», da parte sua, riduce la virtù a correttezza, al comportamento che si conforma alle buone regole della convivenza.
In entrambi i casi si sostituisce alla realtà e al concetto autentico di virtù qualcosa di diverso, con grave danno di chi cerca seriamente la via per attuare il proprio essere. In senso generale si può dire che la nozione di virtù deve indicare la capacità di orientare l’agire in modo che venga attuata la massima espressione possibile della persona; parlare di virtù significa porre il problema dell’elevazione dell’essere della persona, del suo perfezionamento reale e integrale, ovvero significa porre la questione del compimento e della felicità.
Il compimento del bene specifico dell’uomo deve comprendere ogni aspetto e dimensione del suo essere. Perciò l’idea di virtù non va associata principalmente a una dottrina del «fare», ma a una dottrina dell’essere; come osserva Josef Pieper «[…] il suo oggetto specifico primario e fondante tutto il resto è il giusto essere dell’uomo, l’immagine dell’uomo buono».
Tutta la tradizione classica fino a Tommaso d’Aquino fa coincidere la vita virtuosa con la ricerca del bene che dona la felicità; sarà la filosofia moderna a separare la virtù dalla felicità come conseguenza della negazione della capacità della ragione di conoscere il vero bene dell’uomo.
Socrate (469-470 a.C. – 399 a.C.) per primo intende la virtù come l’«arte» di essere uomini: l’azione virtuosa, cioè moralmente buona, è quella fondata sulla conoscenza del vero bene e il bene non è determinato dagli impulsi e dalle circostanze, ma dipende dalla natura umana che, essendo razionale, è capace di conoscere i veri valori e di vivere in base a questa conoscenza che conduce alla felicità.
Platone (428 a.C. – 347 a.C.) condivide la concezione socratica di virtù e le dà una fondazione metafisica: il Bene è l’idea che sta al vertice del mondo soprasensibile e il fine supremo dell’uomo, il suo sommo bene, consiste nella contemplazione di tale idea.
Anche Aristotele (384/383 a.C. – 322 a.C.) ritiene che il bene supremo dell’uomo consista nel vivere secondo la propria natura; l’uomo che vuole vivere bene deve vivere secondo ragione.
Tuttavia nell’anima (principio vitale) dell’uomo non c’è solo la ragione, ma anche l’attività vegetativa e quella sensitiva. La prima governa le funzioni biologiche (nutrimento e riproduzione) e non partecipa della ragione, la seconda governa sensazioni, appetiti e movimento e partecipa solo parzialmente alla ragione; la virtù etica per Aristotele consiste nell’esercitare il possesso della ragione su queste parti dell’anima. Infatti gli impulsi, i sentimenti e le passioni tendono all’eccesso o al difetto ed è compito della ragione stabilire la «giusta misura» tra gli eccessi.
Oltre alle virtù etiche, che conducono alla felicità della vita attiva, Aristotele parla delle virtù dianoetiche, saggezza e sapienza, in cui consiste la perfezione dell’anima razionale e la felicità propria della vita contemplativa.
Se per Aristotele la felicità è la conseguenza della completa attuazione delle potenze naturali, per san Tommaso è necessario superare la realtà finita. L’esperienza infatti insegna che nessuno è appagato dai beni raggiunti, perché al di fuori e al di sopra di essi rimane sempre qualcosa da desiderare e ricercare; l’oggetto di questo desiderio è Dio inteso come Bene sommo e la felicità completa dell’uomo potrà trovarsi solo nell’unione con Dio.
Conseguentemente anche la virtù, intesa come abito che perfeziona l’uomo nel bene operare, deve essere considerata sia sotto l’aspetto naturale sia sotto l’aspetto soprannaturale: l’uomo può tendere alla felicità naturale perché essa è proporzionata alla sua natura, invece la felicità soprannaturale è in rapporto alla grazia e richiede la partecipazione ai frutti della Redenzione.
Per conseguire la felicità soprannaturale non sono sufficienti le virtù umane, sia speculative (quelle che perfezionano le attività intellettive) sia pratiche (quelle che perfezionano la volontà), ma sono necessarie le virtù teologali. Tali virtù (fede, speranza, carità) sono abiti soprannaturali infusi direttamente da Dio: «la felicità dell’uomo ha due gradi: l’uno è proporzionato alla natura umana […] l’altro poi costituisce la beatitudine che eccede la natura umana e a esso l’uomo può pervenire mediante la virtù divina, per una certa partecipazione alla divinità. Questi principi si dicono virtù teologali, sia perché hanno Dio per oggetto,[…] sia perché ci sono infuse solamente da Dio, e infine perché ci sono note nelle Sacre Scritture per effetto della divina rivelazione».
Sarà solo con lo sfaldarsi della metafisica che s’inizierà a concepire la vita morale come obbedienza a leggi esterne all’uomo e a trasformare la domanda etica, così che quest’ultima non riguarderà più il modo migliore di vivere, ma le norme da rispettare per non infrangere i divieti.
RICORDA
“La morale è la scienza delle vie che portano l’uomo alla vera felicità, in forza di quelle qualità dell’anima e del cuore che si denomina virtù”.
(S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana, Ares 1992, pp. 31-32).
BIBLIOGRAFIA
Aristotele, Etica Nicomachea, Rusconi 1993.
Antonio Livi, La filosofia e la sua storia, Dante Alighieri 1997, vol. I, pp.289-339.
Josef Pieper, La luce delle virtù, San Paolo 1999.
Servais Pinckaers, Le fonti della morale cristiana, Ares 1992, pp. 26-67.
Angel Rodriguez Luño, La scelta etica. Il rapporto tra libertà e virtù, Ares 1988.
Giacomo Samek Lodovici, La felicità del bene, Vita e Pensiero 2002.
Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I-II, qq. 49-70.
IL TIMONE – N. 32 – ANNO VI – Aprile 2004 – pag. 30 – 31