Drusilla e il Quadrato
Di Rino Camilleri – Il Kattolico
Pubblicai il mio libro Il quadrato magico (Rizzoli) nel 1999 con la prefazione di Vittorio Messori. Da allora è stato continuamente ristampato e nel settembre 2014 un’ennesima edizione è uscita allegata al Corriere della Sera nella collana “La matematica come romanzo”. Ciò dimostra che quel Quadrato intriga ancora, come ha fatto lungo duemila anni. Chi ha letto il libro sa che si tratta di un anagramma che, risolto, dà due Paternoster incrociati e contornati da “alfa” e “omega”. Il più antico è stato scoperto negli scavi di Pompei.
Lo si trova su molte chiese in tutta Europa, in reperti, pareti, oggetti, manoscritti anche copti e orientali, oggi pure su insegne, perfino su etichette di vino. Ma non ne esiste uno che sia anteriore all’era cristiana.
Per gli infiniti spunti che offre quel Quadrato e che ne fanno, a mio avviso, un crittogramma divinamente ispirato rimando al libro. Il Quadrato rinvenuto a Pompei è necessariamente precedente all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Infatti, la lava seppellì in poche ore l’intera zona e di Pompei non si seppe più nulla fino al XIX secolo. Ne sono venuti alla luce due esemplari, uno dei quali intero, graffiti sui muri.
Perché i cristiani escogitarono quell’ingegnoso (e, ripeto, ispirato, perché è statisticamente impossibile che sia casuale) gioco di parole? La spiegazione più attendibile è la seguente. Come ampiamente e dettagliatamente riportato nel libro, Pompei era la “residenza estiva” dei ricchi romani, piena di sontuose ville e di schiavi provenienti da ogni angolo dell’Impero. Distava solo una quarantina di chilometri da Pozzuoli, punto di sbarco per chi veniva da Oriente. Qui approdò san Paolo.
L’Apostolo, finito per l’ennesima volta in carcere, aveva fatto valere la sua cittadinanza romana e si era appellato al tribunale imperiale. Scortato perciò da un centurione, la sua nave aveva fatto naufragio a Malta. Da lì, aveva poi toccato Siracusa e Reggio prima di arrivare a Pozzuoli. Chi si recava a Roma usava poi proseguire il viaggio via terra. A Pozzuoli sappiamo che Paolo venne accolto dalla locale comunità cristiana (dunque, ce n’era già una). Ce n’era una anche a Roma, come dimostra la Lettera di Paolo ai Romani e la presenza di Pietro a Roma. I cristiani romani andarono a prendere Paolo che veniva da Pozzuoli e lo incontrarono nella località detta Tre Taverne.
La comunità cristiana di Roma, com’è noto, venne distrutta da Nerone nella persecuzione del 64 in cui persero la vita anche Pietro e Paolo. I motivi che indussero Nerone a prendersela con i cristiani sono dibattuti, ma ce n’è uno che ci convince di più e riguarda Poppea, sua moglie. Occorre sapere che Poppea era di Pompei e aveva una lussuosissima villa di novantaquattro stanze nella vicina Oplontis (sepolta dal Vesuvio con Pompei e Ercolano). Poppea Sabina era stata una prima volta sposata col capo dei pretoriani Crispino.
Dopo la caduta in disgrazia e la decapitazione del marito, si risposò col patrizio Otone, dal quale divorziò quando riuscì a diventare l’amante preferita di Nerone. In breve la sua influenza crebbe e indusse Nerone a fare uccidere Agrippina, madre di lui, che la odiava. Lo indusse anche a eliminare la moglie Claudia per impalmare lei. Si dice che, diventata una
proselita della religione giudaica, Poppea convinse Nerone ad addossare ai “nazzareni” la colpa dell’incendio di Roma, da lui stesso innescato e sfuggitogli di mano.
Narra Svetonio che fece una brutta fine: benché incinta, fu uccisa a calci da Nerone, una sera che, rientrato tardi, fu da lei rimbrottato. Visto che c’era, Nerone fece annegare il figlio che Poppea aveva avuto dal suo primo marito.
Insomma, con Poppea di casa a Pompei e Oplontis, e con Nerone che prediligeva il teatro della vicina Napoli per le sue esibizioni artistiche, i cristiani di quelle parti avevano tutto l’interesse a eclissarsi. Qualcuno di loro inventò il Quadrato (o era già in uso tra i cristiani, chissà) per disegnarlo qua e là sui muri, onde far capire ai cristiani nuovi arrivati che in zona c’erano dei fratelli di fede. Infatti, sotto al Quadrato rinvenuto intero a Pompei un’altra mano incise le lettere «a», «n», «o», la chiave dell’anagramma, per far intendere che aveva capito. A un pagano sarebbe sembrato solo uno dei tanti giochi di parole (tipo «roma-amor») che buontemponi e ragazzini tracciavano un po’ ovunque.
Perché dei cristiani sarebbero dovuti venire in quelle città della Campania Felix? Per molti motivi. Alcuni di loro erano scappati da Roma, altri arrivavano dalle città dell’Asia dove gli Apostoli e i loro discepoli aveva fondato comunità.
Altri ancora, prendendo sul serio la profezia di Gesù sulla fine di Gerusalemme, avevano abbandonato la Palestina allo scoppio della rivolta giudaica. Nel 70 i romani rasero al suolo Gerusalemme, sterminarono gli insorti e deportarono come schiavi tutti gli altri. Tra questi ultimi potevano esserci dei cristiani. E a Pompei, su ventimila abitanti, gli schiavi erano ottomila. Città di ricconi e potentati politici, di schiavi aveva sempre fame. Poppea era morta nel 65 e Nerone l’aveva seguita tre anni dopo, ma a Pompei restava qualcun altro da cui i cristiani dovevano guardarsi: Drusilla.
Chi era costei? Era giudea, figlia di Erode Agrippa e sorella di Agrippa II, Berenice e Mariamne. Donna bellissima, aveva sposato il re di Emesa, Aziz, che per lei si era convertito al giudaismo e si era fatto pure circoncidere.
Ma sulla sua avvenenza aveva messo gli occhi il governatore romano Antonio Felice, procuratore di Giudea dal 52 e fratello di Pallante, il favorito di Nerone. Drusilla non ci aveva pensato due volte a lasciare il marito e provocare una crisi diplomatica per convolare con Felice. Ma Felice, come sappiamo, si sentiva in una botte di ferro. Anzi, sapendosi le spalle coperte a Roma, usava con i suoi sottoposti la mano davvero pesante ed era particolarmente odiato dai giudei, una delegazione dei quali, dopo la fine del suo mandato onde evitare rappresaglie, si recò a Roma per accusarlo davanti all’imperatore.
Secondo lo storico Giuseppe Flavio, fu proprio il malcontento provocato da questo procuratore la causa remota della Guerra Giudaica che nel 70 provocò la catastrofe del popolo ebraico e la fine del Tempio. Sappiamo dagli Atti degli Apostoli (capp. XXI ss.) che san Paolo, entrato nel Tempio a Gerusalemme, fu riconosciuto dai giudei che scatenarono contro di lui l’ennesimo tumulto. Trascinato davanti al Sinedrio, Paolo cercò di giustificarsi ma il sommo sacerdote Anania lo fece schiaffeggiare.
Questo Anania, in carica dal 47, era uno spregevole personaggio, talmente inviso al suo stesso popolo che il procuratore romano lo fece deporre nel 59. Paolo, dopo il manrovescio, gli disse che Dio avrebbe percosso lui, «muro imbiancato». Era una profezia, perché quello nel 66 effettivamente morì assassinato da sicari. Fu il tribuno Claudio Lisia a evitare a Paolo il linciaggio, intervenendo con i soldati della Torre Antonia e portandolo al sicuro. I giudei erano infuriati, perché Paolo aveva condotto con sé da Efeso il battezzato Trofimo, ex pagano, e credevano, debitamente aizzati, che Paolo avesse osato far entrare un “gentile” nel Tempio. Paolo, parlando in aramaico, cercò di spiegare l’equivoco ma fu peggio. Lisia, non avendo capito il discorso né i motivi del contendere, per venire a capo della cosa minacciò Paolo di fustigazione. Paolo gli rivelò di essere cittadino romano e, come tale, intoccabile. Lisia allora lo prese in custodia. Ma il figlio della sorella di Paolo seppe che quaranta fanatici giudei avevano fatto voto di non mangiare e bere finché non fossero riusciti a uccidere l’Apostolo. Paolo chiese a Lisia di ascoltare il nipote e il tribuno gli assegnò una poderosa scorta per farlo accompagnare a Cesarea al cospetto del suo superiore, Felice.
A Cesarea san Paolo fu ascoltato dal procuratore e da sua moglie Drusilla, la quale, essendo giudea, aveva sentito parlare del nuovo culto del Nazareno e voleva che Paolo le spiegasse di che si trattava (At XXIV, 24ss.).
Paolo parlò dunque del cristianesimo, ma quando le sue parole toccarono temi morali quali la castità e la fedeltà coniugale, nonché il giudizio finale che attendeva i reprobi, Felice si spaventò e Drusilla si indispettì.
L’Apostolo venne interrotto e rimandato in cella in attesa di giudizio. Drusilla era nella stessa posizione di Erodiade nei confronti di Giovanni il Battista, e identico fu il suo stato d’animo con Paolo. Paolo, perciò, fu lasciato in catene per due anni e senza processo: un abuso, perché era cittadino romano.
Ma Felice aveva un potente protettore a Roma, lo vedemmo. Paolo gli aveva detto di essere venuto a Gerusalemme a portare i frutti della colletta dei cristiani d’Asia, e ogni tanto Felice lo convocava per indurlo a versargliene almeno una parte. Poiché quello faceva orecchie da mercante, Felice lo rispediva in carcere. Nel 60 subentrò come procuratore Porzio Festo, e Felice e signora rientrarono in Italia col loro figlio Agrippa. La storia ci dice che Drusilla e suo figlio morirono nel 79 nel corso dell’eruzione del Vesuvio, e niente altro. Evidentemente Felice, come tutti i Vip romani, aveva una villa a Pompei (o a Ercolano o a Oplontis o a Stabia, le città seppellite dalla lava). Drusilla aveva quarantun anni e probabilmente il marito era morto da tempo. Ma i cristiani locali avevano tutti i motivi per guardarsi dalla malevolenza di quella donna. La quale, con le sue amicizie altolocate, era in grado di danneggiare gli odiati nazareni quando voleva. Meglio, perciò, non farsi notare e comunicare tramite segnali criptici come il nostro Quadrato. â–
Il Timone – Dicembre 2014
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