Il cardinale von Galen diventa beato. Defensor Fidei, per amore della verità e della patria resistette a Hitler. Quando si rischiava la vita opponendosi al nazionalsocialismo.
Se si osservano le immagini delle città rase al suolo, dei vecchi e dei fanciulli inviati al fronte per l’ultima, più accanita, battaglia e se si riflette che la guerra totale prosegue anche dopo la morte del Fürher, l’idea di Germania che se ne ricava è quella di un popolo rimasto fedele a oltranza al suo tiranno, anche quando la tragedia della sconfitta ha assunto toni da «caduta degli dei» wagneriana.
Ed è senz’altro vero: ma vero solo in parte.
Senza dubbio l’equivoca idea di nazione e di patria dei nazionalsocialisti, il risentimento per l’ingiustizia dovuta al Trattato di Versailles al termine della prima guerra mondiale e, dopo la svolta della guerra nel 1943, il terrore della vendetta sovietica hanno saldato intorno al regime un insospettabile consenso. Ma tutto questo non basta per affermare che nella Germania hitleriana non vi siano state né un’opposizione, né una Resistenza.
Infatti, se è vero che il potere assoluto hitleriano – che ricerche recenti rivelano peraltro alquanto meno coeso di quanto si supponga – soffocava ogni manifestazione di dissenso, va notato che il nazionalsocialismo è stato sempre un totalitarismo in fieri, cioè non ha avuto il tempo o la forza, come Lenin e Stalin in Russia, di spezzare del tutto la resistenza dei corpi sociali e di invadere ogni ambito della società.
Se Hitler riesce a eliminare l’opposizione politica e sa conquistarsi le classi dirigenti tedesche, egli in realtà deve costantemente confrontarsi – e non sempre riuscendo a reprimerle – con critiche e resistenze interne, provenienti dall’aristocrazia prussiana e tedesca, da alcune comunità evangeliche, dal mondo cattolico, da ambienti militari, da circoli intellettuali.
A mano a mano che il terribile conflitto volge al peggio, quando opporsi diviene ancor più rischioso, queste resistenze prendono sempre più corpo. Quella militare e aristocratica, «per l’onore tedesco», cercherà di eliminare fisicamente il tiranno – scelta che porterà al fallito attentato del 20 luglio 1944 –, la resistenza religiosa e intellettuale invece si sforzerà di dare una testimonianza – è il caso della Rosa Bianca a Monaco –, di minare il consenso al regime oppure – nel caso dei vescovi – di arginarne le decisioni più brutalmente contrarie alla fede e alla morale. Oltre che da magnifiche figure come Rupert Mayer, Alfred Delp, i fratelli Schöll, Dietrich Bonhoeffer, la resistenza religiosa sarà così animata da eroici presuli, come Konrad von Preysing, di Berlino, Michael von Faulhaber, di Monaco e Clemens August von Galen, di Münster.
Quest’ultimo nasce nel 1878 nel castello di Dinklage, nella Bassa Sassonia, da un’antica famiglia nobiliare cattolica. Allievo dei gesuiti, la sua vocazione matura fin dall’adolescenza. Nel 1904 viene ordinato sacerdote a Münster, in Westfalia. Spostato a Berlino, in anni densi di avvenimenti politici, il giovane prete si segnala per la sua intensa azione sociale. Una visione della fede e della Chiesa quanto mai rigorosa, una mentalità prettamente giuridica, l’influenza delle tradizioni familiari lo inducono a militare fra i cattolici conservatori e nazionali.
Nel 1929 torna a Münster e nel 1933 – quando sale al potere Hitler – viene inaspettatamente eletto vescovo della diocesi «monestariensis».
Fin da subito, nello stile d’inflessibilità espresso dal motto episcopale che si sceglie – «Nec laudibus, nec timore» –, inizia a protestare contro il regime. Nella sua prima lettera pastorale, nel 1934, ammonisce che l’asserita supremazia dell’elemento razziale è contro le radici stesse della fede cristiana. Fa poi pubblicare Studi sul Mito del XX secolo, che confuta scientificamente Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, una delle «bibbie» del nazionalsocialismo. Prosegue predicando contro l’assorbimento delle organizzazioni giovanili cattoliche nel partito. Fra il 1936 e il 1938 rinnova instancabilmente la protesta contro le ormai abituali intimidazioni nei confronti della Chiesa, che raggiungono il culmine dopo la pubblicazione, nel 1937, dell’enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI.
Con lo scoppio della guerra il suo atteggiamento si fa ancor più intransigente, soprattutto a misura che vede il partito procedere imperterrito all’attuazione del suo tragico programma razzista e totalitario.
Due cose in particolare von Galen non perdona: l’esproprio delle case religiose e la politica eugenetica, a cui dedica le cosiddette «grandi prediche» dell’estate del 1941, all’apogeo della potenza del Terzo Reich.
Nella prima, il 13 luglio, condanna le violenze contro i religiosi, ricorda che la violazione della giustizia fa venir meno la ragion d’essere dello Stato e rigetta l’accusa di indebolire il «fronte interno». Il sabato successivo torna a sfidare il regime con la famosa predica «dell’incudine e del martello», usando questa immagine per denunciare qual era allora la condizione dei cattolici tedeschi. Nell’intervento del 3 agosto si scaglia invece contro i provvedimenti eugenetici e il programma di eutanasia degli handicappati promossi dal governo.
I gerarchi, temendo le reazioni del Papa e dei cattolici westfaliani al fronte, si limitano in un primo momento a coprire il vescovo di contumelie, rimandando la loro vendetta a dopo la «vittoria finale».
Il nazionalsocialismo crolla infine travolto dalla sconfitta e la Germania si trova alle prese con lo spaventoso lascito della guerra: l’occupazione, le violenze sovietiche a Est, l’internamento ai limiti dell’annientamento fisico dei soldati nei campi alleati, le agghiaccianti distruzioni delle città, una crisi economica gravissima e una lacerante «de-nazificazione». Davanti alle immani macerie materiali e morali del suo paese, il «Leone di Münster», offeso dal comportamento degli alleati, tornerà a ergersi in tutta la sua statura morale per condannare le ingiustizie degli occupanti e i crimini dei soldati rossi. Von Galen – memore di quanti tedeschi erano finiti nei Lager nazionalsocialisti –, rigetterà anche l’accusa di «colpa collettiva» rivolta al popolo tedesco, e non tacerà sulla tragedia dei tedeschi orientali, caduti sotto un regime politico peggiore di quello nazionalsocialista.
Nel 1946 il vescovo di Münster si reca a Roma per ricevere il galero cardinalizio da Pio XII, sempre trepido verso la diletta nazione tedesca. Il 16 marzo fa ritorno a Münster, accolto da una folla straripante. Pochi giorni dopo, il 22 marzo, misteriosamente, il Signore lo chiama a sé.
Il 9 ottobre del 2005, dopo il riconoscimento dell’indispensabile miracolo – la guarigione, nel 1995, di un giovane indonesiano di Timor Est, Hendrikus Nahak –, Clemens August cardinal von Galen, vescovo, conte, confessore e martire incruento della fede, è stato proclamato beato nella basilica di San Pietro a Roma, presente alla cerimonia il regnante Pontefice tedesco.
RICORDA
«Lo zelo, con il quale tu, venerabile fratello, tieni viva nei tuoi fedeli la coscienza dell’appartenenza alla Chiesa universale e il legame al vicario di Cristo ci fa bene, e ci fa bene per il vostro bene. Sarebbe fatale se guadagnassero terreno i tentativi di incapsulare i cattolici tedeschi e allontanarli dal Papa. […] Di’ ai tuoi fedeli che noi, negli imponenti accadimenti di questo momento, pensiamo e lavoriamo unicamente per alleviare le devastazioni della guerra, soprattutto quelle spirituali – allontanamento da Dio, odio e crudeltà – e per spianare la strada alla pace; una pace che rispetti la legge di Dio e la libertà della sua santa Chiesa, una pace conciliabile con l’onore, con i diritti e le necessità vitali di tutti i popoli coinvolti, così come da noi proclamato nei Messaggi natalizi degli ultimi due anni».
(Lettera di Pio XII al vescovo Von Galen, 16 febbraio 1941).
IL TIMONE – N. 48 – ANNO VII – Dicembre 2005 – pag. 26 – 27