La strage di ufficiali polacchi avvenuta nella foresta di Katyn’ nel 1940 è un esempio unico nel suo genere di manipolazione dei fatti storici, un’operazione di disinformazione talmente audace da esser riuscita ad imporsi per un lungo periodo di anni. Tuttavia la verità non è stata totalmente cancellata.
A Katyn’, una località boschiva 18 km a ovest di Smolensk, entro i confini occidentali dell’Unione Sovietica, nel marzo del 1940 la polizia politica (che allora si chiamava NKVD) massacrò 25 mila ufficiali polacchi di complemento per ordine del Politburo del partito comunista. La strage, di per sé, non era la prima né sarebbe stata l’ultima perpetrata dal regime (pensiamo all’eliminazione dei kulak ucraini, o alla fucilazione di oltre un milione di persone solo tra il 1937 e il 1939), e venne tenuta «riservata» come di solito venivano tenute «riservate» tutte le eliminazioni di massa. Ma senza particolari attenzioni.
Quello che fece del «massacro di Katyn’» l’occasione di una delle più incredibili guerre di propaganda e di disinformazione della storia dell’URSS furono gli inattesi sviluppi delle vicende belliche, che portarono a trasformare l’alleanza tedesco-sovietica del 1939 nell’invasione nazista del giugno 1941. L’invasione portò le truppe tedesche ad occupare la zona di Katyn’ e a scoprire fortuitamente, nel 1943, le fosse comuni; questa rivelazione fuori programma rese necessario da parte sovietica un enorme sforzo di depistaggio per dissimulare la strage davanti agli alleati occidentali, al governo polacco in esilio e ai parenti delle vittime.
I motivi della presenza di tante migliaia di prigionieri polacchi in territorio sovietico e le ragioni della loro soppressione si chiariscono esaminando le vicende storiche di quei mesi, ma soprattutto considerando l’impostazione ideologica del regime staliniano. Dopo l’iniziale alleanza tra Hitler e Stalin siglata col patto Molotov-Ribbentrop, e le occupazioni parallele della Polonia da parte della Germania (Polonia occidentale) e dell’URSS (Polonia orientale) nell’agosto-settembre 1939, Stalin si diede a reprimere ogni resistenza della popolazione polacca, cattolica e antisovietica per eccellenza. In dodici giorni il 52% del territorio polacco spettante all’URSS venne completamente occupato, e subito iniziò un intenso programma di arresti e deportazioni: tra il settembre e il dicembre 1939 le autorità sovietiche fecero 250.000 prigionieri; in particolar modo si pose attenzione all’esercito regolare polacco che aveva opposto resistenza in armi, e al suo interno, soprattutto agli ufficiali, tra i quali si trovava arruolata buona parte dell’intelligencija del paese (giornalisti, docenti universitari, medici, avvocati, ingegneri, artisti). L’NKVD ebbe cura di distaccare ufficiali, agenti di polizia, funzionari statali e dipendenti dei tribunali dalla massa dei prigionieri, internandoli in campi e prigioni separati.
Pochi mesi più tardi il Cremlino prese una decisione riguardo alla sorte di questo gruppo di prigionieri. In un documento segretissimo del 5 marzo 1940, una lettera del commissario agli Interni Berija a Stalin venuta alla luce solo di recente, troviamo la proposta, lucida fino al cinismo, di sopprimerli tout court: «…Nei campi per prigionieri di guerra si trovano in tutto (senza contare soldati e sottufficiali) 14.736 ex ufficiali, funzionari, proprietari terrieri, poliziotti, guardie carcerarie e agenti segreti polacchi… Nelle prigioni delle regioni occidentali ucraina e bielorussa si trovano in tutto 10.685 polacchi…
A partire dal fatto che sono tutti nemici inveterati e irriducibili del potere sovietico, l’NKVD ritiene necessario: … esaminare i casi secondo una procedura speciale, applicando il massimo della pena, la fucilazione».
Il Politburo approvò incondizionatamente la proposta e ordinò così la fucilazione di 25.500 ufficiali polacchi internati nei campi di Kozel’sk, Starobel’sk e Ostaškov, e in alcune prigioni in Ucraina e Bielorussia; voleva essere una sorta di «soluzione finale» del problema polacco.
Soluzione finale in cui giocava soprattutto una questione ideologica, e non soltanto di ordine interno e di sicurezza, tant’è vero che sul piano della semplice razionalità sarebbe stato del tutto superfluo, a questo punto, arrestare e deportare, come invece fu fatto, anche le famiglie (mogli, genitori e figli) degli ufficiali polacchi, 61 mila persone, cui vanno aggiunti 140.000 «contadini ricchi» e 75.000 cosiddetti «rifugiati » (ebrei fuggiti dalla Polonia occupata dai nazisti). In venti mesi di occupazione sovietica circa 400.000 persone (esattamente 381.220 secondo i dati dell’NKVD) vennero arrestate e deportate. Le deportazioni continuarono per tutto il 1940 e il 1941. Quando avvenne l’invasione nazista, il rovesciamento della situazione fu così improvviso e radicale che l’esercito tedesco ebbe buon gioco nello sfondamento, e il governo sovietico si vide costretto a improvvisare una serie di alleanze improbabili, per tamponare la situazione.
Una di queste alleanze fu con la Chiesa ortodossa, un’altra fu con il governo polacco in esilio a Londra. Il 12 agosto 1941 fu decretata l’amnistia per i prigionieri polacchi, e fu concessa la costituzione di un esercito polacco in territorio sovietico, al comando del generale W?adys?aw Anders. Questi non ci mise molto ad accorgersi che tutti i suoi ufficiali detenuti a Kozel’sk, Starobel’sk e Ostaškov erano scomparsi nel nulla. In dicembre chiese un colloquio a Stalin, il quale in sua presenza telefonò a Berija ordinando di ritrovare gli ufficiali scomparsi. Ma i 25.000 ufficiali erano già stati eliminati nel marzo del ‘40, e Stalin lo sapeva bene dato che aveva personalmente firmato il decreto il 5 marzo.
Fu a questo punto che per lui divenne propagandisticamente impellente coprire la strage di Katyn’. Gli eventi del resto, gli diedero una mano. Infatti, il 13 aprile 1941, i mezzi d’informazione tedeschi avevano comunicato il ritrovamento dei corpi di migliaia di ufficiali polacchi in un bosco presso Smolensk. Il fatto che i nazisti accusassero l’NKVD, e che avessero costituito una Commissione medica internazionale per gli accertamenti, invece che aiutare a stabilire la verità sembrò provare al contrario la loro colpevolezza. Tale era la logica contorta dell’ideologia, che voleva a tutti i costi identificare tutto il male in una parte sola. Sembrava, assurdamente, che assolvere da un crimine i nazisti equivalesse ad assolverli in tutto, e che questa vicenda fosse da risolvere sul piano della logica politica e non su quello dei fatti.
Stalin ne approfittò immediatamente: ruppe platealmente i rapporti col governo polacco in esilio che lo accusava della strage, e scrisse a Churchill e Roosevelt un identico messaggio: il fatto che la campagna antisovietica fosse iniziata contemporaneamente sulla stampa tedesca e polacca era prova indiscutibile della collusione tra Hitler e il generale W?adys?aw Eugeniusz Sikorski (1882-1943, capo del governo polacco in esilio). Questa equazione assurda si reggeva soltanto sulla logica astratta delle contrapposizioni, ma finiva per sembrare più decisiva, più «logica» della realtà stessa.
A questa logica aberrante si adeguarono i governi alleati, che pure disponevano di sufficienti informazioni per non dubitare affatto di come erano andate veramente le cose. Ciò nonostante decisero di superare l’imbarazzante situazione affidandosi a una cinica realpolitik: «Se sono morti non c’è niente che possa riportarli indietro… – aveva detto Churchill a Sikorski, – dobbiamo sconfiggere Hitler e questo non è il momento per litigi e accuse». Così trovò un’applicazione politica la convinzione che il bene potesse andare diviso dalla verità; convinzione che avrebbe mostrato la sua totale inefficacia appena finita la guerra mondiale e iniziata quella «fredda».
Sul luogo della strage lavorarono tre diverse commissioni: la Commissione medica internazionale voluta dai tedeschi e composta da rappresentanti di 12 paesi (per lo più alleati coi tedeschi, ma presieduta da uno svizzero), che concluse che la data dell’eccidio risaliva alla primavera del 1940 (quindi accusava i sovietici). La Commissione tecnica della Croce Rossa polacca, che arrivò alla stessa conclusione, e che tuttavia decise di non pubblicare il proprio verdetto per non fare il gioco della propaganda nazista (il rapporto, trasmesso in unica copia al governo britannico, fu dichiarato segretissimo ed è stato pubblicato solo nel 1989). E l’ultima commissione, istituita dai sovietici subito dopo aver rioccupato la regione, guidata dal dottor Burdenko, la quale concluse che le fucilazioni erano avvenute nell’agosto-settembre 1941, quindi dai nazisti.
Il governo sovietico, che teneva spasmodicamente a veder confermata internazionalmente la propria tesi, puntò molto sul processo di Norimberga perché sancisse definitivamente la responsabilità tedesca. Ma la difesa agguerrita degli avvocati occidentali impedì di arrivare a tanto, e i giudici si limitarono pilatescamente a decretare che, non trattandosi di un crimine nazista, il tribunale non aveva competenza in merito.
Era un’implicita sconfessione della tesi sovietica, e un’accusa di colpevolezza, ma la storiografia successiva sembrò non tenerne conto, tornando invece alla tesi di matrice ideologica.
Il fatto che dopo il 1991 dagli archivi sovietici siano usciti i documenti espliciti sulla responsabilità sovietica, comprese le decisioni del Politburo sullo sterminio che Boris El’cin ha consegnato a Lech Walesa nel 1992, sembra non bastare a chiudere la diatriba. Ancora oggi c’è chi sostiene che si trattò di un crimine nazista, come un certo Muchin che sul sito russo
www.hrono.ru afferma: «La vicenda di Katyn’ fu usata contro l’URSS durante la guerra fredda. …Oggi il tentativo di far passare una versione falsificata viene sostenuto da parte polacca, poiché i parenti delle vittime e i loro avvocati sperano di ottenere dalla Russia (cioè dalle tasche dei nostri contribuenti) ingenti somme in risarcimento».