Una predica, ascoltata da un missionario durante la santa Messa domenicale, che, da sola, a parer mio, vale un corso di catechesi. Ipotizziamo che un lontano parente, che non vediamo da dieci anni, bussi, inaspettato, alla porta di casa nostra, giusto all’ora del té. Sulle prime, facciamo fatica a riconoscerlo, è invecchiato, ma lo si fa entrare volentieri. Passava dalle nostre parti, spiega, per concludere un affare, ha finito prima del previsto e ha voluto farci una sorpresa. Lo accogliamo con un sorriso, s’accomoda sul divano, lo ascoltiamo premurosi, gli prepariamo una tazza della calda bevanda; ci ha detto che fra un’ora deve ritornare.
In quel mentre, ci ricordiamo che in frigo abbiamo una torta deliziosa, tagliata a fette. Siamo indecisi se aggiungerla al té, poi, per pigrizia o per non tirare in ballo troppe cose, soprassediamo.
Per tempo, il parente se ne va. Lo salutiamo dichiarandoci disposti ad accoglierlo alla prossima occasione, in fondo in fondo compiaciuti per la nostra buona azione.
Lui, bene accolto, è soddisfatto. Noi anche. Ma – ricordava il missionario nella predica domenicale – a pensarci bene, il meglio lo abbiamo tenuto per noi: quella torta in frigo è ancora lì, in fresco. Qui ha fine il racconto. Veniamo alla morale, che il missionario suggeriva.
Stando a certa catechesi oggi di moda, l’accoglienza del prossimo sembra essere diventata il vertice dell’azione caritativa. Pare che un cristiano si distingua dai cattivi e dalle belve perché sa accogliere: l’immigrato, anche se clandestino, l’anziano, il disabile, il drogato, l’emarginato, il povero, il diverso e naturalmente la vita, specialmente non nata. Accolto il prossimo, la coscienza del cattolico si acquieta, in pace con se stessa. Il buonismo invade l’anima. E la narcotizza. Sì, perché a costo di scandalizzare, va pur detto che questo modo di ragionare non è cristiano. È monco, dunque è pericoloso nella prospettiva cattolica.
Mi spiego: se ci fermiamo all’accoglienza, noi cristiani siamo fermi al té. Non è quanto di meglio possiamo offrire. Il “meglio” che un cristiano può donare al prossimo ha nome e cognome: Gesù Cristo. Al parente, all’immigrato, al malato e all’anziano, alla vita che verrà si deve portare Gesù Cristo. Certo, una coperta, un pane, un sostegno non si negano a nessuno, ma senza il tentativo di guadagnarlo a Gesù Cristo, vale a dire (non si fosse capito bene) di conquistarlo alla fede cattolica, qualora non l’abbia o l’abbia dimenticata, la solidarietà serve a poco, l’accoglienza non si muta in carità. Ragionate così, cattolici, e vi sentirete dire: integralismo di bassa specie, presunzione insopportabile. Si risponde: non prendetevela con noi, ma con Gesù Cristo, il Quale moltiplicava – è vero – pani e pesci e guariva malati e indemoniati, ma quando volle sintetizzare la missione da affidare ai suoi – cioè a noi – la ridusse a quattro azioni: andate, insegnate tutto ciò che vi ho detto (presuntuoso, stando alla logica di questo mondo: ogni cultura, ogni fede, ogni dottrina si equivale; che prete¬sa insegnare il cristianesimo), fate discepoli (scandaloso, per il mondo: come osate chiedere di abbandonare credenze e comportamenti per abbracciare uno solo. Gesù Cristo) e, da ultimo, battezzate (il vertice dell’inconcepibile, anche per molti dei nostri bravi cattolici: un musulmano va accolto, punto e basta; mica battezzato).
Invece, nella prospettiva cristiana, il prossimo va accolto, certo, ma Gesù Cristo vuole che sia battezzato. Se lo è già, ma s’è dimenticato, vuole che rimedi. Insomma, va guadagnato a Gesù Cristo.
Il Papa la chiama Nuova Evangelizzazione. Noi, smemorati, la riduciamo all’accoglienza. Ci basta offrire il té, ci teniamo la torta. E facciamo un doppio danno: a noi, perché Dio ci chiederà conto; e al prossimo, che ha diritto di conoscere Gesù Cristo come lo abbiamo conosciuto noi. È in suo potere rifiutarLo, è vero. Ma è nostro dovere offrirglieLo.
IL TIMONE N. 11 – ANNO III – Gennaio/Febbraio 2001 – pag. 2-3
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