L’India è quasi ignorata. Eppure è la migliore dimostrazione di come si possa passare, in mezzo secolo, dalla miseria estrema al progresso in tutti i campi. La missione della Chiesa.
Perché in Italia si parla così poco del grande paese-continente India, secondo al mondo dopo la Cina per numero di abitanti, e del suo “miracolo economico”? È l’interrogativo che sempre mi pongo ogni volta che visito l’India, al quale non so dare risposta. Eppure il fatto mi pare “scandaloso”, soprattutto per noi cristiani d’Occidente. Quando si discute di fame nel mondo e lotta alla povertà nel sud del mondo, l’India non è quasi mai ricordata, mentre a me pare l’esempio più insigne di un popolo che sta vincendo quest’unica guerra degna di essere combattuta. Poche cifre danno l’idea di questo “miracolo” non solo economico.
L’India diventa indipendente il 15 agosto 1947, quasi sessant’anni fa. Gli indiani sono aumentati da 361 milioni a un miliardo e 30 milioni, passando dal 3,2% all’1,9% di aumento annuo. Il prodotto nazionale lordo (pil) è aumentato dall’1,3% negli anni Cinquanta al 3,8% negli anni Settanta e al 6,2% negli anni Novanta. La produttività agricola dallo 0,5% nel 1951-1952 al 3,2% negli anni Novanta (l’autosufficienza alimentare è la base di ogni sviluppo economico e sociale!). La popolazione giudicata “sotto il livello minimo di povertà” è passata dal 55% nel 1973 (prima era peggio!) al 34% nel 1997. Il reddito medio pro capite, parificando il valore della moneta e la capacità di acquisto, da 121 (nel 1951) a 400 dollari. E potrei continuare con le cifre tratte da varie fonti autorevoli. Si noti che l’India non ha ricchezze naturali (non petrolio, non oro, non diamanti, ecc.) e un territorio che è un terzo di quello cinese: l’India è estesa meno di Sudan ed Etiopia sommate assieme e ha un miliardo e 30 milioni di abitanti, mentre i due paesi africani non arrivano a 80 milioni e sappiamo quanto sono in preda alla fame, all’instabilità politica e alle guerre etniche. L’India ha più abitanti di tutto il continente africano (800 milioni) in un territorio che è circa un decimo di quello africano; e quasi tre volte abitanti del Sud America (400 milioni), in un territorio che è circa un quarto di quello sudamericano (il Brasile è due volte e mezzo più vasto dell’India)! Negli anni cinquanta del Novecento l’India importava 2,1 milioni di tonnellate di cereali l‘anno (1951), oggi esporta cibo in Medio Oriente, Africa e, fino a qualche anno fa, anche in URSS e paesi dell’Europa orientale. Le riserve statali indiane di grano sono sui 40 milioni di tonnellate, sufficienti per non far temere un’altra carestia come l’ultima grande carestia nazionale del 1966.
Ditemi voi se questo non è un “miracolo” che andrebbe studiato, approfondito, discusso, per capire come funziona lo sviluppo dei popoli poveri. Invece niente.
L’India è quasi ignorata, mentre credo sia il miglior esempio di come si possa passare, in mezzo secolo, da una situazione di miseria estrema ad un’altra non solo di sopravvivenza, ma di progresso in tutti i campi. Il “miracolo indiano” non finisce qui. L’India è democratica, ha saputo mantenere la libertà politica, di mercato, di stampa e religiosa in situazioni difficilissime di partenza (non ignoro affatto gli episodi di intolleranza e anche di persecuzione dell’estremismo indù contro i cristiani in varie parti del paese! Purtroppo l’induismo, come l’islam del resto, sono strumentalizzati da politici che cercano il potere). Ma quel che più interessa è che l’India, contrariamente a molti altri Paesi non cristiani, ha una cultura millenaria intrisa di spirito religioso, che nei tempi moderni si è espressa in un personaggio come il “Mahatma” Gandhi (la “grande anima”), che le ha dato un orientamento spirituale e religioso, volto alla difesa dei più poveri e marginali. Anni fa si è svolto in India un convegno nazionale su questo tema: “Può l’India raggiungere lo sviluppo dell’America seguendo la via indicata da Gandhi?”. Gli esperti hanno concluso che Gandhi non voleva affatto che l’India raggiungesse l’America nel suo modello di sviluppo tecnocratico ed economico, anzi rifiutava positivamente uno sviluppo materialista, che comporti la perdita dei valori spirituali e morali. Gandhi aveva in mente il progresso spirituale dell’uomo e del popolo, ma era anche convinto che questo non è possibile se la società non è libera dallo sfruttamento economico e dalla miseria. S’impegnò a fondo per la liberazione dei poveri, dei paria, ma mettendo sempre alla base di tutto i valori religiosi e morali, la vita religiosa.
Voleva un’India progredita ma anche spirituale, perché la religione è la forza basilare per la trasformazione dell’uomo e della società: fece leva sulla fede e i simboli dell’induismo, introducendo però una lettura nuova della religione tradizionale attraverso l’accoglienza delle Beatitudini evangeliche.
Il Vangelo e il modello di Cristo hanno avuto un enorme influsso sui riformatori dell’Induismo dalla seconda metà dell’Ottocento, che hanno segnato profondamente il cammino dell’India moderna, come Tagore, Vinoba Bhave, Vivekananda. Quest’ultimo è stato uno degli ispiratori di Gandhi attraverso il quale è passato il messaggio di Cristo. L’universo indù sembrava a Vivekananda esageratamente contemplativo, troppo chiuso alle necessità della persona umana e nel 1897 ha fondato la “Ramakrishna Mission” introducendo nell’Induismo moderno lo spirito missionario e le opere caritative sull’esempio delle missioni cristiane. «Abbandonate i vostri misticismi che vi indeboliscono – scriveva a monaci indù. – È l’amore l’anima del mondo. Per questo amore il Cristo ha donato la sua vita per l’umanità. Adorate Dio nei poveri. A noi occorre una religione che ci dia fiducia in noi stessi e il rispetto degli altri. Se voi volete servire Dio, servite l’uomo».
È evidente agli indiani d’oggi che le radici dell’India moderna sono ben diverse da quelle dell’Occidente cristiano, che si riferisce all’Illuminismo, alla Rivoluzione francese, alla filosofia idealista e ultimamente a Marx e al marxismo nelle sue varie derivazioni, movimenti radicalmente anti-teisti e anti-cristiani. Se dall’ispirazione ideale scendiamo al piano storico, è noto il positivo riconoscimento che le più grandi personalità anche politiche dell’India indipendente (basti pensare a Nehru, Indira Gandhi, Shastri, Radakrishnan) hanno avuto sull’importanza ed esemplarità delle opere caritative ed educative delle Chiese cristiane nello sviluppo dell’India, ultimamente anche attraverso il modello, l’icona di Madre Teresa.
Quel che manca ancora oggi alla Chiesa in India, che è una bella Chiesa di fede viva ed entusiasta, ricca di vocazioni, è di trovare un linguaggio indiano adatto a trasmettere il messaggio di Cristo. Ecco il significato del dialogo inter-religioso con l’induismo, che Giovanni Paolo II ha promosso vigorosamente nel suo viaggio in India nel febbraio 1986 (e già prima Paolo VI a Bombay nel novembre 1964). Non ho spazio per sviluppare questi temi, ma la mia vuol solo essere una riflessione in seguito ad un recente viaggio in India. L’antica nostra Chiesa occidentale trascura troppo l’India. Siamo tutti presi dalle nostre grandi ma in fondo piccole battaglie per riaffermare Cristo in Occidente e stiamo dimenticando la spinta missionaria che Cristo ha dato alla sua Chiesa: «La missione, infatti, – scriveva Giovanni Paolo II nella “Redemptoris Missio” (n. 2) – rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale».
Oggi è il momento di accorgerci, non solo in campo politico ed economico, che mondi nuovi stanno nascendo in Oriente, in Cina ma anche in India, i quali, con l’incremento galoppante del progresso economico-sociale-culturale, avranno grande influsso nel futuro dell’umanità nel terzo millennio. Quando si parla di spirito missionario e di vocazioni missionarie si pensa sempre e quasi solo al missionario, alla suora, al volontario laico che partono per assistere i poveri, i lebbrosi, gli affamati, gli orfani. Certo, bisogna fare anche questo, ma il movimento missionario italiano dovrebbe saper gettare ponti di dialogo e di comprensione con popoli come quello indiano, che sono più vicini a Cristo di quanto non si creda comunemente.
IL TIMONE – N. 46 – ANNO VII – Settembre/Ottobre 2005 – pag. 48 – 49