È la preghiera che ci ha insegnato Gesù Cristo. Nel giro di poche frasi raccoglie ed esprime le richieste essenziali dell’uomo al suo Creatore. Una preghiera esemplare
«Voi dunque pregate così:
Padre nostro, che sei nei cieli
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo Regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male» (Mt 6,9-13).
1. Una preghiera “esemplare”
La Chiesa ha sempre proposto il “Padre nostro” ai suoi figli come preghiera esemplare, che nel giro di poche frasi raccoglie ed esprime le richieste essenziali dell’uomo al suo Creatore. E l’ha collocata onorevolmente anche nelle sue celebrazioni ufficiali, tanto nella liturgia eucaristica quanto nella liturgia delle ore.
2. Un linguaggio comune
C’è in essa un’ammirevole semplicità di linguaggio, che riesce a richiamare i concetti più alti avvalendosi dei termini più consueti alla nostra ferialità.
«Padre», «pane», «debiti»: vocaboli presi, si direbbe, dalla nostra vita casalinga. Evocano una realtà usuale e dimessa: la realtà degli affetti semplici e naturali, del lavoro compiuto per vivere, degli affanni e delle paure degli umili.
«Padre», «pane», «debiti»: parole antiche che rievocano l’esistenza tipica del nostro popolo, con le sue modeste possibilità economiche e le sue sostanziali “ricchezze” morali.
a) Il Padre
Il «Padre»: la prima fondamentale fortuna sociale era l’esistenza diffusa di genitori che, prima che al diritto di vivere ciascuno la «propria vita», pensavano soprattutto ai figli e per essi si sobbarcavano a ogni fatica. Potevano anche litigare sulla maniera più opportuna di far quadrare l’angusto bilancio familiare, ma non avevano la minima discordanza circa la volontà di fare crescere i loro figli secondo i princìpi di comportamento ereditati dai loro padri e nella fede tipica della nostra gente.
b) Il pane
Il «pane» era il grande dono che nelle nostre case non era mai negato a nessuno. I companatici erano tutti attentamente misurati e distribuiti sulle mense con oculatezza. Il pane invece era dato senza limiti; e nessun altro alimento a noi ragazzi sembrava così amico e così nostro.
c) I debiti
Faceva parte di quell’antica civiltà la volontà e possibilmente la fierezza di non aver debiti con nessuno. Era la fierezza che costringeva a essere attenti ad arrivare puntuali e pronti alle varie scadenze inderogabili di pagamento (l’affitto, la luce, l’acqua, il gas), facendo poi bastare per tutte le altre spese quello che avanzava dell’unica busta paga.
3. Annuncio di verità superiori
Mi emoziona e mi affascina vedere come nella preghiera di Gesù proprio questi comuni pensieri della gente meno abbiente e più oscura (il padre, il pane, o i debiti) siano caricati di un messaggio altissimo e diventino annuncio di superiori verità, quasi segno della nostra relazione di creature esigue e contaminate nei confronti del nostro Creatore e della sua santità.
In questa preghiera, ad esempio, si afferma che Dio è da noi lontanissimo eppure vicinissimo a noi: remoto e sovrastante come la volta del cielo, ma insieme intimo e caro come il nostro papà: «Padre, … che sei nei cieli » (Mt 6,9). Qui si dice anche che egli è l’unica sorgente vitale di tutti, perché in lui tutta l’umanità, per così dire, s’imparenta e diventa una sola famiglia: «Padre nostro»; sicché ogni lacerazione, ogni odio, ogni guerra in qualche modo ha la malizia del sacrilegio. Qui si dice infine che Dio è la sorgente in noi di una sorprendente e quasi incredibile nobiltà – una nobiltà addirittura «regale» – dal momento che egli ha un suo «regno» che è anche «nostro», visto che siamo suoi figli.
Il pane invece è citato a segnare la nostra radicale indigenza; è l’emblema di tutto ciò che ogni giorno ci necèssita per tirare avanti nel nostro travagliato mestiere di uomini: il cibo, l’aria, la luce, la tenacia, il coraggio, nonché una plausibile ragione di esistere, un po’ di pace interiore, qualche sincera amicizia, e così via.
Sono tutte cose che disperiamo di poterci assicurare con le sole nostre forze, e perciò le imploriamo nell’immagine e nel simbolo del «pane». Sono tutte cose che si consumano in fretta o addirittura di colpo si eclissano, e proprio per questo vanno chieste ogni giorno: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano » (Mt 6,11).
Infine i debiti: lo spettro di chi, pur senza tranquillizzanti riserve finanziarie e senza garanzie per il futuro, vuol poter continuare a camminare a testa alta. Sono qui ricordati per dirci che, all’opposto, di fronte a Dio il nostro capo deve essere sempre chinato nell’umiliazione, perché davanti a lui non siamo mai come dovremmo: siamo sempre in uno stato debitorio. Davanti a Dio siamo sì in uno stato intrinsecamente fallimentare ma che non ci fa cadere nella disperazione, perché sappiamo che i conti possono sempre essere riportati in pareggio dal miracolo della grazia divina filialmente sollecitata: «Rimetti a noi i nostri debiti» (Mt 6,12).
Al tempo stesso, la menzione dei «debiti» ci rivela che anche noi paradossalmente abbiamo qualcosa da regalare. Noi abbiamo il potere e l’opportunità – ci ammonisce la preghiera che Gesù ci ha insegnato – di donare agli altri il perdono, dal momento che c’è sempre qualcuno che pecca contro di noi; allo stesso modo del resto che noi ogni giorno pecchiamo contro gli altri e contro Dio: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori».
Il «padre», il «pane», i «debiti»: con questi tre termini – si è visto – Gesù ci ha suggerito, quali contenuti immancabili della nostra preghiera, tre essenziali valori: la certezza di avere un Padre che non ci lasci mai soli a cavarcela con i guai dell’esistenza (come purtroppo fatalmente avviene dei padri che ci generano nella carne); la concreta possibilità di una sopravvivenza degna della nostra natura di uomini; il sollievo e la gioia di sentirci assolti dopo ogni caduta e di poter quindi ripartire a percorrere la via della giustizia. Non so che cosa di più elementare e di più indispensabile si possa mai desiderare nella vita.
DA NON PERDERE
Il prezioso libro dell’arcivescovo emerito di Bologna ha il merito di sintetizzare in poche pagine i “nodi” del Risorgimento italiano, nell’ottica di mantenere e valorizzare l’unità politica raggiunta nel 1861, ma con la libertà di criticare il modo con cui è stata realizzata. Dai danni provocati dalla dominazione napoleonica, al riconoscimento della vitalità, soprattutto artistica, “dell’Italia prima dell’Italia”, il presule mette in luce la “ferita” anche legislativa inferta dal processo risorgimentale contro la Chiesa e la presenza cattolica. Senza nostalgie per il passato preunitario, senza mettere in dubbio l’assetto politico sorto con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, riconoscendo anzi come provvidenziale la “liberazione” della Chiesa dal peso ormai anacronistico del potere temporale, l’autore ricorda che «agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, almeno da sette secoli erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli».
IL TIMONE N. 103 – ANNO XIII – Maggio 2011 – pag. 48 – 49
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