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12.12.2024

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Il Paradiso
31 Gennaio 2014

Il Paradiso

Nella terza cantica sono espresse, con una poesia insuperabile, le verità principali della fede: Dio come creatore dell’Universo ed unico vero bene felicitante, la Trinità come circolazione d’amore, l’Incarnazione del Verbo, la Madonna come creatura sublime e porta del Cielo


Lasciata la sommità del Purgatorio, Dante, accompagnato da Beatrice, affronta l’ultimo tratto del suo viaggio nell’aldilà, percorrendo, con una salita vertiginosa, il Paradiso. Alla sua sommità c’è l’Empireo, il luogo dove la Vergine Maria, gli angeli e i Santi (uniti a formare quella che Dante chiama la «candida rosa»), perennemente alla presenza di Dio, Lo adorano e Gli rendono grazie.
Fin dai primi versi siamo avvolti dall’elemento dominante della cantica: la luce che promana dalla «Gloria di Colui che tutto move», una luce che (Dante riprende temi del neoplatonismo e di Dionigi l’Areopagita) penetra e risplende dovunque nell’Universo, anche se in Paradiso raggiunge il suo apice.
Il senso della vita umana: la visione amorosa di Dio
La stessa luce, trenta canti più avanti, al momento dell’ingresso nell’Empireo, sarà così descritta da Beatrice: «Luce intellettual, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore» («luce del Logos divino nella pienezza della Carità, che è Amore di Dio, unico vero bene e fonte della felicità eterna che supera ogni felicità umana»). Questa definizione, poeticamente perfetta, è di una profondità teologica abissale. Infatti, contiene: la nozione di Dio come unico vero bene; quella dell’amore che promana dalla relazione trinitaria e in essa circola eternamente; l’idea (ripresa dal Prologo del vangelo di Giovanni) del Verbo che, per amore, si fa carne; l’indicazione della natura della vera felicità che consiste nell’amore di carità verso Dio, che dà piena soddisfazione alla sete di verità e di amore che tormenta l’uomo sulla terra.
Dante racconta di questa felicità, quella che si prova nello scoprire la Verità e nella Comunione con l’Amore, il quale dà senso a tutte le cose, ivi compresa la nostra singola esistenza umana, quando nell’ultimo canto (il XXXIII), scrive che, conoscendo-vedendo l’essenza divina (e perciò anche il suo intelletto), vede «legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (vede «rilegato in un unico volume, tutto ciò che nell’Universo è scritto su pagine separate»: cioè vede nell’intelletto divino tutte le cose ed il loro senso, che solo da Dio è pienamente conosciuto e amorosamente voluto); e aggiunge, qualche verso più sotto: «la forma universal di questo nodo / credo ch’i vidi, perché più di largo / dicendo questo, mi sento ch’i godo» («affermo con forza di aver visto la Radice stessa dell’Universo perché, anche soltanto parlandone, godo di una felicità più intensa»); e noi godiamo con lui, perché, finalmente, dopo tanto cercare, dal profondo dell’Inferno e passando per il Purgatorio, scopriamo il senso di tutto il nostro viaggiare, il senso di tutto ciò che esiste, la verità che illumina l’intelletto e completa il nostro indagare: noi e l’Universo esistiamo perché Dio ci ama e, scoprendolo, siamo travolti dalla felicità di sentirci amati e di volerLo riamare.
La bellezza incomparabile della terza cantica
Abbiamo affrontato solo pochi versi del Paradiso dantesco e ci siamo già trovati immersi nelle verità principali della nostra fede, accostate con la forza di una poesia bellissima, che possiede una densità di significati che, davvero, sorprendono ad ogni lettura.
È nella terza cantica della Commedia che si mostra pienamente la fede di Dante, uomo e poeta, una fede che, corroborata da una sana dottrina teologica, si dimostra conoscenza molto più elevata della filosofia (che pur Dante apprezza molto, cfr. l’articolo di A. Torresani in questo dossier), una forma di sapere che tocca il suo vertice nella conoscenza mistica, cioè immediata, di Dio, sperimentata dai Santi nel corso della loro vita terrena e che Dante ci raffigura, sia pur nei limiti delle possibilità umane; che, tuttavia, in Dante, grazie alla sua arte, superano quelli di qualunque trattato teologico che affronti lo stesso argomento.
Ma, accanto alla fede del teologo, nella Commedia troviamo anche la fede semplice, e solida, del comune fedele, direi, quasi quella del bambino piccolo che si affida a sua madre, che le chiede di aiutarlo nelle tempeste della vita per tenere a bada le tentazioni, sempre in agguato, e di soccorrerlo al momento della morte, quando l’assalto del nemico diventa più pericoloso e doloroso.
Un luogo comune che circola sul Paradiso di Dante è che sia più difficile che bello e che, delle tre cantiche, sia quella che meno attrae sul piano del racconto, mancandovi le rappresentazioni pittoresche dell’Inferno o l’atmosfera intessuta di serenità piena di speranza del Purgatorio.
In realtà, la bellezza della poesia dantesca raggiunge i suoi vertici nel Paradiso, trattando temi che, spaziando dalla filosofia alla teologia, approdano alla trattazione di realtà esplicitamente e squisitamente spirituali. E qui non va dimenticato il fatto che la poesia religiosa, per essere veramente tale, cioè vera poesia, deve saper attingere a vertici di perfezione (cosa che a Dante riesce perché è il più grande poeta di tutti i tempi), pena la caduta nell’impoetico, se non nel ridicolo o nel melenso.
Alcune figure
Non si può non ricordare, oltre al capolavoro del canto finale, che inizia con la ben nota preghiera alla Vergine, l’incontro con Piccarda Donati, nel III canto, permeato dalla pace interiore che deriva dall’accettazione, consapevole e amata, nonostante la sofferenza che essa provoca, della volontà di Dio; o quello con san Tommaso d’Aquino che ci presenta la figura di san Francesco che sposa la Povertà, l’unica, con bellissima immagine dantesca, a salire sulla croce insieme a Cristo morente; e i due sposi, Francesco e Povertà, si amano a tal punto che «La lor concordia e i lor sembianti, / amore e meraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi» («La loro concordia e i loro volti sereni facevano nascere, in coloro che li incontravano, santi propositi di imitazione»).
E poi l’eloquente discorso dell’imperatore Giustiniano, nel VI canto, un vero trattato di filosofia della storia che pone al centro delle vicende umane l’incarnazione, la passione e la morte di Cristo e la sua resurrezione come segno esplicito e decisivo della continua azione provvidenziale di Dio nella storia umana. Vale la pena di ricordare che T.S. Eliot, il grande poeta anglosassone del XX secolo che amava Dante, ci riproporrà la stessa immagine ne I Quattro Quartetti, il poema della sua maturità artistica, definendo l’incarnazione come l’intersezione del senza tempo (Dio eternamente presente) con il tempo, la storia degli uomini.
Dante ci parla anche dell’Eucarestia, quando (nel I canto), inventandosi letteralmente il termine «trasumanar», vale a dire «diventare più che uomo», ci dice che questa esperienza è indescrivibile a parole, ma è anche già in parte anticipata (come ha scritto anche Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi) ed alla portata di tutti coloro che ne fanno esperienza diretta per grazia divina, accostandosi alla Comunione.
Sia detto di passaggio: in questo caso, come in altri del Paradiso, viene in primo piano il tema della difficoltà interpretativa della Commedia da parte di commentatori, anche eruditi, ma non credenti. Moltissime analisi sono state condotte su questo neologismo di Dante, ma l’interpretazione più immediata, quella data sopra, spesso non viene nemmeno considerata. Ciò spiega anche la diffusa ostilità, mascherata da difficoltà e presunte oscurità, che si riscontra alla lettura diretta in classe del testo dantesco, in una scuola, che è solitamente specchio della società che la circonda, ridotta alla sola dimensione orizzontale, priva, cioè, dello strumento interpretativo della dottrina della fede.
Ancora, con versi bellissimi, Dante, ricalcando san Tommaso, ci parla dell’intelligibilità dell’Universo quando dice: «Le cose tutte quante / hanno ordine fra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» («Tutte le cose sono ordinate tra loro in forma armoniosa, la quale rende l’Universo simile a Dio», che è massimamente armonioso). È, questa, la visione ordinaria dell’uomo religioso, l’unica capace di fondare la scienza e di difenderla dalle aberrazioni cui oggi assistiamo e che derivano dal presupposto ateistico e dall’idea errata che possa essere il pensiero umano, da solo, a dare ordine al caos del mondo.

La missione della poesia
Al centro della cantica, e non a caso, Dante colloca l’incontro con il suo antenato, Cacciaguida, grazie al quale tratteggia la figura del poeta e il compito che attende la poesia. Egli mostra a Dante fino a che punto si deve spingere il poeta nel perseguimento del suo compito primario, quello di dire sempre e solo la verità, anche quando essa può dare fastidio e risultare scomoda. In versi universalmente famosi, Dante si sente dire dal suo trisavolo: «Tu lascerai ogni cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta. / Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e il salir per l’altrui scale» («Tu dovrai lasciare tutto quello che ami di più; questa è la prima sofferenza che procura l’esilio. Tu proverai che sapore amaro ha il pane chiesto ad altri, e come è umiliante dover ricorrere all’ospitalità altrui»). La poesia non è un passatempo, non è cosa per pochi fortunati, è strumento divino per far giungere la verità più direttamente al cuore dell’uomo, grazie ai suoi strumenti che toccano l’intelligenza e muovono lo spirito alla contemplazione ed all’azione. Il prezzo da pagare per tener fede a questo compito, oltre all’esilio, che non è solo l’esilio fisico dal luogo natale, ma anche quello spirituale in un tempo e in una società che si è allontanata dalla verità, può anche essere la morte, così come è capitato a Cacciaguida che, per difendere i luoghi santi, ha dato la sua vita combattendo contro quelli che vengono definiti «gente turpa resa tale dall’attaccamento al mondo fallace».

Retrospettiva su tutto il viaggio ultraterreno

L’intera Divina Commedia, oltre ad essere tutto quel che spesso si dice, cioè capolavoro della letteratura italiana, enciclopedia del sapere medievale, miniera senza fine per i poeti che verranno, è il racconto di un fatto che tocca tutti noi, lettori di sempre: il racconto del cammino della nostra conversione dalla condizione di peccato alla grazia del perdono divino.
L’Inferno ci narra della schiavitù del peccato; delle conseguenze che ha quest’ultimo per chi non sa o non vuole liberarsene; è uno stimolo al riconoscimento delle colpe, alla nostra responsabilità personale nel rialzarci, grazie all’aiuto di Dio, a esser pronti a pagare la pena che ci siamo meritati (come accade nel Purgatorio), nella certezza che la misericordia di Dio, sollecitata anche dalla preghiera dei battezzati, abbrevierà la pena e ci donerà la salvezza eterna. Il Paradiso è il premio, che ci vien dato fin d’ora, e Dante ne è testimone, se ci sforziamo di vivere bene, ricorrendo ai sacramenti e all’intercessione dei Santi e della Vergine Maria.
Rivolto a lei, umilmente, il grande poeta dice: «Donna sei tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disianza vuol volar sanz’ali» («Donna tu sei così straordinaria e tanto grande è la tua potente intercessione, che chiunque vuole ottenere una grazia e non fa ricorso a te, difficilmente potrà essere esaudito, un po’ come se volesse volare senza ali»).

RICORDA

«La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove. / Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende»
(Paradiso, 1-6)

BIBLIOGRAFIA

Dante Alighieri, Paradiso, edizione consigliata a cura di Bianca Garavelli, Bompiani 1993.
Charles Singleton, La poesia della Divina Commedia, Il Mulino 20022.
Thomas Stearns Eliot, Dante, in Idem, Opere, Bompiani 1993.
Vittorio Sermonti, Il Paradiso di Dante, Rizzoli 2006.

Dossier: La Divina Commedia: capolavoro massimo della letteratura

IL TIMONE N. 96 – ANNO XII – Settembre/Ottobre 2010 – pag. 36 – 38

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