A guerra finita il progetto di eliminare preti, industriali e i “nemici di classe”. Non solo una esplosione d’odio, ma un piano programmato dai vertici del PCI: L’odioso ruolo svolto da Togliatti.
“Triangolo della morte” venne chiamato nell’immediato dopoguerra esattamente il territorio fra i Comuni modenesi di Manzolino, Castelfranco e Piumazzo che progressivamente s’allargò alle province di Reggio Emilia, Bologna e anche Ferrara. Vi si verificarono efferati omicidi dopo la fine della guerra. Essi ascesero a un massimo di 50mila morti secondo le cifre dell’inchiesta giornalistica, a caldo, di Giorgio Pisanò, esponente neofascista, per scendere a circa 20mila secondo la stima prudenziale, certamente riduttiva, della stampa di sinistra.
I fatti avvennero tra la fine dell’aprile 1945, data dell’insurrezione nazionale dei Comitati di Liberazione, e il settembre del 1946. Non si tratta perciò di caduti in guerra, ma di esecuzioni sommarie e di rappresaglie personali senza processo. Autori furono gruppi di partigiani prevalentemente di area comunista. L’Allied Military Government, il governo militare alleato inglese-americano, non riuscì a frenare rastrellamenti e omicidi commessi con la complicità di enti politici e comandi )artigiani ancora armati e investiti di autorità sul territorio.
Il capo del PCI Palmiro Togliatti, di fronte all’estensione e all’evidenza delle colpe, fu costretto ad ammette”e le vicende e a tentarne una spiegazione ideologica giustificativa, di fatto confermativa. Intervenendo alla Conferenza provinciale di Organizzazione della Federazione del PCI di Reggio Emilia, ammise testualmente che «una parte di tali torbidi eccidi ricadeva sul partito poiché una grande Federazione come quella di Reggio avrebbe dovuto pronunziarsi contro tali delitti non sol-tanto a fatti avvenuti, ma avrebbe dovuto prevedere e prevenire intervenendo a tempo in ambienti di ex partigiani o di incerti e confusi, con maggiore efficacia, per il rispetto della legalità democratica». Durante il discorso che, dato successivamente alle stampe, verrà pubblicato con il titolo «Ceti medi ed Emilia rossa», Togliatti creò la tesi che le uccisioni, il massacro fossero «gravissimi episodi di radicalismo contadino e deviazioni di singoli o di ristrettissimi gruppi di operai estremisti». Naturalmente si trattava di sociologia di comodo che tutto il partito percepì invece come sintomi che tra le fila dell’organizzazione vi fossero elementi e veri e propri gruppi criminali che agivano indisturbati, anzi protetti. L’impressione dentro il partito, nelle federazioni settentrionali e meridionali, fu grande e profonda, allarmata da analoghi avvenimenti accaduti in centri operai, come quello della Volante rossa a Milano, che si rese colpevole della strage di dirigenti di fabbrica e di borghesi di vari quartieri: tutte persone che la cosiddetta “giustizia proletaria” aveva arrestato e brutalmente assassinato. Togliatti ne era puntualmente informato. Egli adottò qualche misura di facciata. Per esempio, a Milano, si rifiutò pubblicamente di rilasciare la propria firma sulla tessera del partito che il tenente Alvaro, comandante della famigerata Volante rossa, vistosamente gli chiedeva sulle scale del teatro Smeraldo dove si era svolta una manifestazione di partito. Ma oltre questi gesti, Togliatti non andò o non poté andare, prigioniero di una base ex partigiana del PCI che in quel momento gli era ostile anche perché egli era portatore dell’intesa con la Monarchia, cioè con il governo del Maresciallo Badoglio. Togliatti sentì la gravità e le colpe dell’ora, avvertì l’evidente illiceità degli abusi commessi da notevoli frange del partito del nord, ma non agì adeguatamente, doverosamente per scongiurarle o meglio arrestarle. Fu uno dei momenti più neri della agitata carriera politica del capo del Partito Comunista Italiano.
L’elenco delle vittime del “triangolo della morte” dimostra che il massacro era politicamente diretto.
A capo delle liste furono collocati i religiosi. Valga il caso cruento del sacerdote don Umberto Pessina, parroco di Correggio, ucciso il18 giugno 1946. L’ex deputato comunista e comandante di un distaccamento partigiano, Giannetto Magnanini, ha rivelato in un libro recente che il delitto, allora rimasto oscuro, fu opera precisamente della ronda comandata dal dirigente provinciale comunista di Reggio Emilia. Il Partito comunista non solo fu diretto esecutore ma anche paradossale accusatore, provocando la condanna di falsi colpevoli nelle persone di Germano Nicolini, Elio Ferretti e Antonio Prodi, innocenti. Don Pessina aveva tentato di difendersi: fu colpito nel corso della colluttazione e impietosamente finito. Le udienze del processo si ebbero alla fine del 1950 e videro l’autorevole intervento di avvocati comunisti, principi del Foro e autorevoli politici, come i parlamentari Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente, e Fausto Gullo, in quella occasione chiamati ad asserire il falso e non la verità.
Altro settore preso di mira: quello dei dirigenti e proprietari d’industria. Fra questi, il direttore delle Officine reggiane, Arnaldo Vischi, ucciso il 31 agosto 1945. Insomma furono colpiti soprattutto sacerdoti e industriali, obiettivo esemplare dell’ideologia classista del marxismo estremista. Il fenomeno fu così vasto e capi Ilare da restare finora in gran parte ancora sconosciuto. Si ignorano i nomi di tutti i morti del “Cavon”, come si chiama un gran fosso in territorio di Reggio, precisamente in località Campagnola, sepoltura senza nome di sedicenti ex squadristi del passato regime fascista.
Una mano assolutoria definitiva agli assassini del “triangolo” venne data dal segretario generale del partito, Ercoli-Togliatti. Lo strumento usato fu quel lo di un’amnistia generalizzata che finì con il comprendere anche responsabili di delitti della Repubblica di Salò. Essa fu promulgata nel giugno 1946 e venne elaborata con il chiaro intento di seppellire un periodo scomodo per la storia comunista del dopoguerra. Togliatti era allora, dal 21 giugno 1945, membro del governo italiano, Guardasigilli e responsabile dell’ordine giudiziario che avrebbe dovuto colpire inesorabilmente le vendette operate dagli ambienti partigiani. Così non fu: avvenne anzi il contrario e… giustizia non è stata fatta. Un episodio come quello dei cinque ragazzi diciottenni della scuola militare di Oderzo della Repubblica di Salò, arrestati senza colpa dalla Polizia partigiana e trasferiti a Moglia, tra le provincie di Mantova e Modena, non è stato mai chiarito: furono bastonati a sangue e poi trucidati nel vicino Comune di San Possidonio, vittime incolpevoli che non avevano mai neppure combattuto in quel maggio del fatale 1945, rinvenuti molti anni dopo.
Molto rimane da scavare di un triste e luttuoso periodo dentro e fuori una nobilissima terra, l’EmiliaRomagna. Una cosa però va subito detta e ribadita. Nulla o quasi avvenne per caso, ma fu affidato a una regia di base e di vertice mossa da intenti precisi e consapevoli. Ogni giorno gli storici non conformisti scoprono nel nostro Paese sacche di verità occultate e responsabilità deviate. Persino di quelle che furono ali ‘epoca depistate accuratamente con vilipendio della realtà. In questi giorni è stato pubblicato un autorevole saggio sull’«assassinio di un filosofo», Giovanni Gentile, scritto dallo storico Francesco Perfetti. Una formazione partigiana operante a Firenze lo colpì a tradimento il15 aprile 1944 dinanzi alla villa di Salviatino. A lungo furono ricercati gli esecrati esecutori del barbaro atto, eseguito non contro un uomo d’armi ma contro un intellettuale che predicava concordia nazionale e rispetto delle culture. Si è scoperto di recente che la sentenza di morte contro di lui era stata erogata via radio dalla stazione di Milano Libertà che trasmetteva da Mosca. Era stato il titolare eminente della rubrica sui fatti italiani. Si chiamava con lo pseudonimo Mario Correnti, ma altri non era che Palmiro Togliatti. Quando arrivò in Italia da Mosca, il 27 marzo, l’ordine di uccidere Gentile era già in fase di esecuzione e più tardi, dopo la consumazione dell’assassinio, Togliatti chiamerà a far parte del suo ufficio personale al Partito il partigiano che personalmente aveva fatto fuoco sul filosofo.
BIBLIOGRAFIA
Importanti ricostruzioni dei fatti accaduti e testimonianze dell’epoca sono riportate nelle opere di Giovanni Fantozzi, “Vittime dell’odio”. L’ordine pubblico a Modena dopo la liberazione (19451946), Europrom Edizioni,1990 e di Rossana Maseroli Bertolotti, La Chiesa reggiana tra fascismo e comunismo, il Girasole d’oro, 2001. Quest’ultima opera è dedicata a mons. Wilson Pignagnoli, sacerdote nativo di S. prospero di Correggio, fondatore del settima-nale della diocesi di Reggio Emilia La libertà e autore del volume ormai introvabile ma ricco di informazioni Reggio: bandiera rossa. 1921-1961. Quarant’anni di storia del PCI a Reggio Emilia, ed. del Borghese, 1961.
Utile la ricostruzione della vicenda che ha portato alla revisione del processo dei partigiani innocenti lasciati accusare dal PCI, soprattutto per capire la vita interna al partito: Otello Montanari, Gli innocenti, Reggio Emilia 1998. Altre informazioni importanti in Dario Zanini, Marzabotto e dintorni, 1944, Edizioni Ponte nuovo, 1996; Giuseppe Trevisi, “delitto Fanin. 4 novembre 1948, il Mulino, 1998 e La stola insanguinata. Don Francesco Venturelli Arciprete di Fossoli, Diocesi di Carpi 1996.
Alcune letture della Resistenza “diverse” da quella mitologica meritano di essere ricordate oltre alla recentissima opera di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, 2003: fra di esse Ugo Finetti, La Resistenza cancellata, Ares, 2003; Sergio Cotta, La Resistenza come e perché, Bonacci, 1994 e l’importante testimonianza di Alfredo Pizzoni, presidente del CLNAI nel 1943-45, poi esautorato perché anticomunista, finalmente ripubblicata con introduzione di Renzo Da Felice, Alla guida del CLNAI. Memorie per i figli, il Mulino, 1995.
Dossier: Il “Triangolo” dell’odio e della vergogna
IL TIMONE – N.39 – ANNO VII – Gennaio 2005 pag. 36 – 37 – 38