Tutto cominciò con un sogno che il piccolo Giovanni Bosco (nato 200 anni fa; la festa liturgica è il 31 gennaio) fece a nove anni: si trovava in un cortile a giocare, assieme a tanti altri ragazzi. Molti si divertivano, e alcuni cominciavano già a mostrare la corruzione della loro anima bestemmiando. Con questi Giovannino aveva subito preso a litigare e a fare a pugni. Ma poi erano intervenuti un Signore buono e maestoso e la sua dolcissima Madre, che gli avevano chiesto di mettersi piuttosto alla guida di quei ragazzi: da animaletti feroci e rissosi doveva farli diventare agnellini docili e felici. E così avveniva appunto nel sogno! O era stata piuttosto una visione? In seguito Don Bosco racconterà altri suoi sogni, ma facendo tranquillamente capire che essi gli venivano da Dio.
L’influsso della mamma
Per fortuna anche la mamma del piccolo Giovanni coltivava una religiosità profonda e intensa e custodiva attentamente il suo ragazzo, soprattutto quando si presentarono gli appuntamenti
decisivi per la crescita della fede. Raccontava Don Bosco, con tenerezza: «Ricordo che fu lei a prepararmi alla prima confessione. Mi accompagnò in chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento.
Continuò ad aiutarmi fino a quando mi credette capace di fare da solo una degna confessione». E ancora: «Nel giorno della Prima Comunione, in mezzo a quella folla di ragazzi e di gente, era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre al mattino non mi lasciò parlare con nessuno. Mi accompagnò alla Sacra Mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento […]. Mi ripeté più volte queste parole: Figlio mio, per te è stato un grande giorno. Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che t’impegnerai per conservarti buono per tutta la vita».
Così egli passò gli anni dell’adolescenza, imparando tanti mestieri e studiando quando era possibile, per cercare di realizzare quella vocazione che Dio gli aveva messo in cuore, nonostante le difficoltà economiche e sociali.
Poté entrare in seminario solo a vent’anni, studiò teologia per cinque anni e poté finalmente essere ordinato sacerdote:
«Ora sei prete – gli disse ancora mamma Margherita – e sei più vicino a Gesù. […]. D’ora in poi, pensa solo alla salvezza delle anime e non prenderti nessuna preoccupazione per me».
Alla ricerca dei giovani
La Torino di allora era contagiata dalla febbre della prima industrializzazione. Gli immigrati si contavano a migliaia e orde di ragazzi invadevano le strade, offrendosi per tutti i lavori possibili. Ma nessuno li proteggeva né li educava. Molti si davano al furto e spesso finivano nelle carceri della città, lasciati in preda al freddo, alla sporcizia, alla fame e alla corruzione. Don Bosco girava per le vie, cercando di intercettare quella povera gioventù. Cominciò alloggiandone alcuni nella sua cucina, ma nel 1846 ne aveva già radunati circa trecento. Così
era continuamente costretto a traslocare in cerca di spazi sempre più ampi.
Aveva chiesto aiuto anche a mamma Margherita e lei trascorse santamente gli ultimi dieci anni della sua vita a fare da mamma a decine e centinaia di figli non suoi, ma che quel figlio prete le conduceva da parte di Dio.
Don Bosco intanto si trovava a dover combattere contemporaneamente su molti fronti: c’erano i politici preoccupati del potenziale rivoluzionario rappresentato da quelle bande di giovinastri che obbedivano a un solo cenno di quel prete. E perciò l’oratorio era insistentemente sorvegliato dalla polizia. E c’erano parroci gelosi perché quei cosiddetti oratori staccavano i giovani dalle rispettive parrocchie. Ed erano pochi a capire che quell’oratorio – più che una struttura o un luogo – era sostanzialmente la persona stessa di don Bosco: la sua energia, il suo stile, i suoi metodi educativi. Tutte cose che non potevano essere trasportate da una parrocchia all’altra.
Per fortuna l’Arcivescovo aveva voluto conoscere personalmente l’Oratorio e vi aveva trascorso una giornata attorniato da ragazzi in festa («Non ho mai riso tanto in vita mia!», dirà poi ai suoi collaboratori). Aveva distribuito centinaia di comunioni e amministrato centinaia di cresime, riconoscendo di fatto l’Oratorio come «la parrocchia dei ragazzi che non hanno parrocchia » [ndr: sull’oratorio cfr. anche l’articolo di Roberto Lanzilli in questo dossier].
Il «prete pazzo»
Ma bisognava poi far fronte alle tempeste provocate dai moti risorgimentali, che sconvolgevano anche la Chiesa, i seminari e gli istituti religiosi. «Ci fu un tale pervertimento di idee e di opinioni – scriveva don Bosco – che non potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici.
Ogni lavoro casalingo doveva quindi essere fatto da me. Toccava a me fare cucina, preparare a tavola, spazzare la casa, spaccare la legna, confezionare camicie, calzoni, asciugamani, lenzuola e rammendarli quando si strappavano. Sembrava una perdita di tempo invece trovai
in quell’attività una possibilità d’aiutare i giovani nella loro vita cristiana. Mentre distribuivo il pane, scodellavo la minestra, potevo con calma dare un buon consiglio, dire una buona parola». I ragazzi gli credevano, ripetevano le sue parole. Al contrario, perfino i più affezionati amici lasciavano cadere le braccia: «Povero don Bosco, si è tanto infatuato dei giovani che gli ha dato di volta il cervello». Tutta Torino ormai parlava del «prete pazzo». Si cercò perfino di internarlo, con uno stratagemma.
E Don Bosco commentava: «Tutti mi abbandonano. Ma ho ancora Dio con me. L’Opera non è mia, ma Sua. Ed Egli ci penserà!».
E Dio, infatti, “ci pensava” nella maniera fantasiosa che a Lui conviene. Le sue iniziative si susseguivano a ritmo prodigioso e ininterrotto: classi ginnasiali; scuole serali e domenicali; scuole di musica vocale e strumentale; società di mutuo soccorso per operai; un laboratorio per calzolai, sarti, falegnami, fabbri; una tipografia e una legatoria. E lo stesso don Bosco firmava i primi contratti di apprendistato di cui si abbia memoria in Italia. In seguito ci sarà anche un convitto per studenti.
Verso il 1862 l’intero Oratorio contava circa seicento ragazzi interni e altrettanti esterni. Oltre a trentanove salesiani che con don Bosco avevano dato inizio a una congregazione religiosa.
Incuranti del colera
Molti sono gli episodi di questa lunga storia che meriterebbero di essere raccontati. Ci limitiamo al più commovente [ndr: cfr. anche i box di questo dossier]: nell’estate 1854 a Torino scoppia il colera a due passi dall’oratorio di don Bosco. Il sindaco rivolge un appello alla città, ma non si trovano volontari per assistere i malati né per trasportarli al Lazzaretto. Tutti sono presi dal panico. Il giorno della Madonna della Neve (5 agosto) don Bosco raduna i suoi ragazzi e promette: «Se voi vi mettete tutti in grazia di Dio e non commettete nessun peccato mortale, io vi assicuro che nessuno di voi sarà colpito dalla peste» e chiede loro di dedicarsi all’assistenza degli appestati. Tre squadre: i grandi a servire nel Lazzaretto e nelle case, i meno grandi a raccogliere i moribondi nelle strade e i malati abbandonati nelle case. I piccoli in casa disposti alle chiamate di pronto intervento. Ognuno con una bottiglietta di aceto per lavarsi le mani dopo aver toccato i malati. La città, le autorità, anche se anticlericali, sono sbalordite e affascinate. L’emergenza finisce il 21 novembre. Tra agosto e novembre a Torino ci sono stati 2.500 appestati e 1.400 morti. Ma nessuno dei ragazzi di don Bosco si è ammalato.
Pronto a tutto per salvare l’anima ai suoi ragazzi
Adottava il suo metodo educativo preventivo [cfr. l’articolo di Roberto Spataro in questo dossier, ndr.] e l’allegria come strada per portare i giovani al soprannaturale:
«Devi sapere – spiegava al piccolo Domenico Savio (la prova più completa e riuscita della paternità educativa di don Bosco) – che qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri». Don Bosco confessava e comunicava tutti i ragazzi, dimostrando loro che, senza la pace del cuore, non potevano essere veramente felici, veramente ragazzi. Ragione, religione, amorevolezza sono il trinomio su cui don Bosco fonda la sua opera preventiva, insistendo genialmente sul fatto che «non basta amare, bisogna far vedere che si ama, renderlo percepibile: un amore che si esterna in parole, atti e perfino nell’espressione degli occhi e del volto». È ovvio poi che un tale amore deve essere intelligente e inarrestabile nella sua operosità.
Per i suoi ragazzi don Bosco si costrinse perfino a diventare scrittore. La Biblioteca per la Gioventù cristiana, da lui interamente scritta e composta, conta 204 titoli (anche con testi latini e greci).
«Io sono col Papa, obbedisco al Papa»
Quale educazione socio-politica trasmetteva don Bosco in quegli anni di gravi sconvolgimenti? Diceva che gli bastava «la politica del Pater noster» e quella di «stare col Papa». Interrogato sulla questione romana [i dibattiti sull’unificazione italiana], rispondeva: «io sono col Papa, sono cattolico, obbedisco al Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai piemontesi: “Venite a Roma”, allora io pure direi: “Andate!”. Ma se il Papa dice che l’andata dei Piemontesi a Roma è un furto, allora io dico lo stesso». E non mancò di intervenire in momenti particolarmente gravi, usando anche di certi suoi personali carismi.
Grande risonanza ebbe il tentativo di Don Bosco per convincere il Re a non firmare la legge di soppressione dì tutti i conventi, legge iniqua e dannosa per la povera gente [ndr: cfr. l’articolo di Alberto Torresani in questo dossier].
Don Bosco fu anche l’uomo di cui tutti (Chiesa e Stato, re e pontefice, ministri e cardinali) sapevano di potersi servire quando bisognava assolutamente trovare un accordo. Quando bisognò risolvere la questione delle diocesi italiane dopo l’unificazione (sessanta diocesi erano senza vescovo), le lunghe trattative ebbero don Bosco come intermediario.
Ancora oggi qualcuno storce il naso davanti a Don Bosco perché egli non contestò l’assetto sociale del suo tempo e le divisioni in classi. Ma egli rifiutò di fare il “prete sociale”, dal punto di vista politico, perché sentì che la sua vocazione era l’intervento immediato:
l’amore che subito si rimbocca le maniche e sì mette al lavoro, convinto che i poveri non possono attendere le grandi analisi e i grandi progetti. Con lui la giusta “rivoluzione sociale” avveniva nei fatti. In un promemoria che don Bosco scrisse poco prima di morire si legge infatti: «Dal registro consta che non meno di centomila giovinetti, assistiti, raccolti, educati con questo sistema, imparavano la musica, chi le scienze letterarie, chi arte e mestieri, e sono
divenuti virtuosi artigiani, commessi di negozio, padroni di bottega, maestri insegnanti, laboriosi impiegati e non pochi coprono onorifici gradi nella milizia. Molti anche, forniti dalla natura di un non ordinario ingegno, poterono percorrere i corsi universitari e si laurearono in lettere, in matematiche, medicina, leggi, ingegneri, notai, farmacisti e simili».
Ammiratissimo anche dai non credenti
Don Bosco morì nel 1888. Una trentina d’anni dopo, Giuseppe Lombardo Radice (celebre pedagogista non credente, ma onesto) ricorderà ai suoi lettori e studenti: «Don Bosco era un grande che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa […] egli seppe creare un imponente movimento di educazione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse che essa era venuta perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e da ogni Chiesa, egli è pure un eroe, l’eroe dell’educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi prosecutori possono essere orgogliosi». â–
“IL GRIGIO”
Nella vita di don Bosco c’è la presenza ritornante di un cane grigio, èl Gris’ (in piemontese), che lo salvò più di una volta da frequenti aggressioni: ad esempio, nel 1854, in una notte nebbiosa, «due loschi individui lo aggredirono e lo avvolsero in un mantello. A quel punto comparve il Grigio, che abbaiò fragorosamente, fece perdere l’equilibrio a uno degli uomini spingendolo con le zampe e saltò alla gola dell’altro.
[…] Una sera, Mamma Margherita cercava di dissuadere il figlio dall’idea di uscire, ma don Bosco era deciso ad avviarsi […] ma il Grigio gli impedì di passare.
Mamma Margherita commentò: “Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane”. In seguito si venne a sapere che quella sera don Bosco era minacciato da alcuni uomini che attendevano che uscisse per assassinarlo. […]
Fu chiesto più volte a don Bosco un parere sulla natura di quell’animale sorprendente.
Don Bosco disse […] «Ho riflettuto spesso sull’origine di questo cane… So solo che per me è stato un dono della provvidenza». (www.donboscoland.it)
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