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14.12.2024

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Il primato di Baghdad
31 Gennaio 2014

Il primato di Baghdad

 

 

L’uccisione del prete cattolico Ragheed Ganni ha fatto emergere una situazione drammatica per i cristiani, con preti rapiti, assalti a chiese, violenze e pressioni di ogni genere sui fedeli. E ora spunta anche un progetto politico per creare un “ghetto” cristiano. Ma i vescovi e il Papa dicono no.

 

«I giovani organizzano la sorveglianza dopo i diversi attentati già subiti dalla parrocchia, i rapimenti e le minacce ininterrotte ai religiosi; i sacerdoti dicono messa tra le rovine causate dalle bombe; le mamme, preoccupate, vedono i figli sfidare i pericoli e andare al catechismo con entusiasmo; i vecchi vengono ad affidare a Dio le famiglie in fuga dal paese, il Paese che loro invece non vogliono lasciare, saldamente radicati nelle case costruite con il sudore di anni». Descriveva così, pochi giorni prima di venire ucciso, la situazione a Mosul, in Iraq, padre Ragheed Ganni, un giovane sacerdote caldeo. Padre Ragheed è stato vittima di una vera e propria esecuzione con tre suoi giovani subdiaconi – Basman Yousef Daud, Wahid Hanna Isho, Gassan Isam Bidawed – il 3 giugno, subito dopo aver celebrato la messa domenicale. È il primo sacerdote cattolico ad essere ucciso in Iraq dal 2003, ma questo «crimine vergognoso», questo «atto orribile contro Dio e contro l’umanità» – come lo hanno definito i vescovi caldei – non è purtroppo un caso isolato. In meno di un anno, infatti, almeno sei sacerdoti sono stati sequestrati e torturati; uno di loro, l’ortodosso padre Boulos Iskander Banam è stato trovato con la testa e le braccia mozzate dopo tre giorni dal sequestro. E dopo la brutale uccisione di padre Ragheed, un altro sacerdote caldeo è stato rapito a Baghdad il 6 giugno, padre Hani Abdel Ahad, poco più che trentenne. Con lui sono stati sequestrati anche 5 giovani cristiani con cui si stava recando a visitare gli edifici del semina-rio minore nella capitale irachena (nel momento in cui scriviamo questo articolo non sappiamo l’esito del sequestro).
Colpire il pastore per disperdere le pecore: è ormai chiara la strategia dei gruppi estremisti che mirano a cacciare i cristiani da una terra in cui vivono dall’inizio del cristianesimo. «Siamo consci della nostra missione – ha detto un profugo iracheno incontrato a Damasco dal giornalista Camille Eid – ma quando non sfuggono al massacro nemmeno i preti, come possiamo sperare che rispettino la vita di noi poveri fedeli? Le nostre autorità religiose non hanno i mezzi per proteggere se stesse, figurarsi se possono proteggere noi». La pressione sulle comunità cristiane è enorme: attacchi a chiese ed edifici religiosi si stanno intensificando, come scriveva padre Ragheed pochi giorni prima di morire in una lettera inviata agli amici dell’agen-zia AsiaNews: «Attendiamo ogni giorno l’attacco decisivo ma non smetteremo di celebrare messa; lo faremo sotto terra, dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono incoraggiato dalla forza dei miei parrocchiani. Si tratta di guerra, guerra vera, ma speriamo di portare questa Croce fino alla fine con l’aiuto della Grazia divina». Baghdad e Mosul sono le città dove maggiormente i cristiani corrono pericolo: in alcune zone della capitale anche alle donne cristiane viene imposto il velo per uscire di casa; e in entrambe le città crescono le pressioni perché i cristiani si rechino alla moschea per versare la Jizya, ossia la tassa prevista dal Corano a carico dei non musulmani in cambio della protezione. C’è da dire che le violenze sono state ufficialmente condannate sia dalla massima autorità sunnita dell’Iraq, la Association of Muslim Scholars in Iraq, sia dal governo legittimo di Baghdad, ma ripristinare la stabilità e garantire la sicurezza nel Paese sembra un obiettivo lontano.
Tanto più che su questa situazione drammatica si allungano anche le ombre di progetti dalle finalità poco chiare, in qualche modo pre-sentite ancora da padre Ragheed: «In un Iraq settario e confessionale, che posto sarà assegnato ai cristiani? Non abbiamo sostegno, nessun gruppo che si batta per la nostra causa, siamo soli in questo disastro. L’Iraq è già diviso e non sarà mai più lo stesso. Qual è il futuro della nostra Chiesa? Oggi sembra molto vago da tracciare».
Infatti mentre la tensione sale alcuni ambienti cristiani politicizzati negli Stati Uniti hanno iniziato a fare pressioni per la creazione di una regione autonoma nella piana di Niniveh, dove concentrare i cristiani con la giustificazione che così sarebbe più facile garantirne la tutela. Ma è un progetto che è stato immediatamente respinto dai vescovi iracheni e anche il Papa ne ha parlato al presidente americano George W. Bush nel corso dell’udienza concessagli il 9 giugno in Vaticano, strappandogli la promessa di garantire la protezione dei cristiani nella situazione attuale. Ma per fermare il progetto Niniveh è necessario che sia bloccata l’escalation di violenza contro i cristiani, perché l’idea di una enclave cristiana non è una soluzione estemporanea nata dall’emergenza. Essa è piuttosto un progetto politico ben preciso, come ha ben spiegato, in un articolo pubblicato da AsiaNews l’8 giugno scorso, padre Saad Hanna Sirop, uno dei primi sacerdoti caldei rapiti a Baghdad, nell’agosto 2006, e liberato dopo 27 giorni di minacce e torture: «Il progetto di una zona per i cristiani è un sogno politico nato nel seno di una ideologia che ha come obiettivo la restaurazione della gloria di un impero perduto, l’impero assiro del nord. Esso è certamente mescolato all’ambizione di alcuni politici cristiani e vescovi all’estero che vogliono avere una zona per governare e una sede politica per la successione, e garantire interessi personali ed economici». Il progetto, spiega padre Sirop, facilitato dalle rivendicazioni etniche che hanno dominato il dopo-Saddam, non troverebbe un’opposizione di principio negli Stati Uniti ed è vista con favore anche dai curdi del Kurdistan che si troverebbero una zonacuscinetto tra loro e la zona arabo-sunnita. Ma questa eventualità minerebbe alla radice la storia e il senso della presenza cristiana in Iraq: «I cristiani dell’Iraq sono stati sempre presenti in tutte le aree del Paese – dice padre Sirop –; oggi si trovano a Bassora, Emara, Baghdad, Ramadi, Sammara, Kirkuk, Mosul, Erbil, Dihok… Il fatto in sé prova che la coscienza originaria dei cristiani è quella di esse-re figli di questa terra, fratelli di ogni uomo, cittadini di questa terra». Inoltre «il messaggio cristiano è un messaggio universale rivolto ad ogni uomo e in ogni tempo»: accettare un ghetto significherebbe depotenziare questo messaggio, oltreché rassegnarsi a una divisione etnica dell’Iraq che «è la causa principale della violenza»; inoltre danneggerebbe «la realtà storica del cristianesimo in Iraq che ha sempre lavorato con gli altri e in tutti i luoghi per la costruzione della cultura irachena».
Non resta dunque che continuare a lavorare sempre più strenuamente «per un progetto nazionale che favorisca un Iraq uno e unito (…) e per una riconciliazione tra tutte le componenti della società tramite incontri di alto valore religioso».

IL TIMONE – N.65 – ANNO IX – Luglio/Agosto 2007 pag. 18-19

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