La storia esaltante di “Bisagno”. Nome di battaglia di un giovane ufficiale protagonista della Resistenza, cattolico e anticomunista. Coraggioso e autorevole con i suoi soldati, morirà a 24 anni, in un misterioso incidente stradale
Un “codice” per i suoi soldati
Ben presto, a Cichero affluiscono soldati inglesi e australiani fuggiti dal campo di prigionia di Cicagna, nonché numerosi soldati italiani che non intendono arrendersi ai tedeschi. La voce corre tra le vallate. Unità fasciste tentano alcuni assalti ma vengono respinte. I componenti della “Cichero” si attengono ad una sorta di regolamento non scritto ma conosciuto a memoria da tutti gli uomini di “Bisagno”. Un regolamento che sarebbe passato alla storia come il “codice di Cichero”.
Eccone i punti salienti:
– ogni comandante di gruppo (commissari, intendenti, comandanti di distaccamento) è eletto dalla base;
– ogni nome di paese, montagna, vallata viene cambiato, per confondere eventuali infiltrati-spie;
– è severamente proibito toccare le donne che non lo desiderano;
– ogni rifornimento alimentare richiesto ai contadini va pagato;
– i comandanti devono dare l’esempio a tutti i partigiani (ecco, su questo tema, un brano della direttiva di “Bisagno”: «Il capo mangia sempre per ultimo, sceglie per ultimo la sua parte, beve per ultimo alla fonte o alla bottiglia, fa di notte il turno più pesante»);
– sono rigorosamente vietati bestemmie e turpiloquio. “Bisagno”, da sempre cattolico convinto e osservante, aveva scritto in proposito, in una direttiva ai suoi uomini: «La bestemmia è, per chi crede, una abiezione e, per chi non crede, una stupida inutilità. In ogni caso è simbolo di pervertimento. Ad impedirla e punirla devono provvedere i commissari politici».
A partire dal gennaio 1944, ha inizio una serie di azioni militari che ben presto procurano a “Bisagno” (il suo nome di battaglia, preso a prestito dal torrente che scende dalle montagne e attraversa Genova) e ai suoi uomini la fama di invincibili. Gastaldi riesce quasi sempre a costringere alla resa il nemico, sia esso “repubblichino” o tedesco, senza colpo ferire.
Ma il suo capolavoro rimarrà per sempre il “recupero” alla guerra di liberazione di una importante unità della Divisione Alpina “Monterosa”, il Battaglione “Vestone”, che aveva all’attivo una brillante tradizione militare risalente alla Prima Guerra Mondiale. La “Monterosa” era una delle quattro Divisioni dell’esercito di Mussolini formate in Italia dai ragazzi di leva e addestrate in Germania. Il Battaglione “Vestone” era impegnato sull’Appennino ligure-emiliano. In più occasioni “Bisagno”, travestito da alpino, si era intrufolato nei ranghi della formazione per sondare le possibilità di defezione dei ragazzi con i fasci alle mostrine. Alcuni alpini lo avevano subito seguito, altri erano rimasti nella formazione come suoi informatori e propagandisti. E finalmente, dopo una serie di incontri segreti con gli ufficiali della formazione, l’intero Battaglione, con alla testa il suo comandante, maggiore Cesare Paroldo, il 4 novembre 1944, data simbolica perché anniversario della vittoria italiana del 1918 sugli austro-tedeschi, era entrato a far parte della Divisione “Cichero” con armi, salmerie, carriaggi e radio da campo: caso unico durante tutto il corso della guerra civile, ufficializzato con questo solenne ordine del giorno della Divisione “Cichero”: «Stamani, nell’anniversario dell’armistizio che l’Italia ha imposto all’esercito austro-ungarico e tedesco nella Grande Guerra, il Battaglione alpino “Vestone” è passato al completo nelle file della terza Divisione Garibaldina “Cichero”. Gli Alpini hanno così ritrovato la vera Italia, quell’Italia nostra e onesta che combatte sui monti per la sua libertà. Il Comando della terza Divisione Garibaldina “Cichero” saluta gli Alpini del Battaglione “Vestone” e plaude al loro gesto, alla ritrovata fraternità nel nome dell’Italia».
Parole per nulla gradite dal comando delle Divisioni “garibaldine”, che faceva capo al Partito comunista e predicava non la pacificazione con i fascisti ma il loro sterminio. Fu l’inizio di un aspra contrapposizione tra gli uomini di “Bisagno” e quelli con il fazzoletto rosso al collo, culminato in un confronto a mani armate che non si concluse nel sangue solo per la ferma condotta di Gastaldi.
Risale a quell’evento, l’abitudine di “Bisagno” di dormire ogni notte con la pistola sotto la testa, non per paura dei nazi-fascisti ma dei partigiani comunisti.
Una “strana” morte
“Bisagno” morì, ventiquattrenne, mentre riportava a casa, per restituirli alle loro famiglie, i ragazzi del “Vestone”. Sulla strada costiera del lago di Garda, cadde dal camion sul quale viaggiava e – così narra la vulgata – fu schiacciato dalle ruote.
Ma 60 anni dopo, il suo cugino e compagno di battaglie Dino Lunetti, in una intervista concessa a Riccardo Caniato e pubblicata nel libro I Giusti del 25 Aprile (edizioni Ares), ha demolito tale versione fornendone una molto più verosimile: avvelenato fino a fargli perdere i sensi e farlo precipitare.
Silenzio sul libro e sulla rivelazione di Lunetti. Ma l’anno seguente, su proposta dell’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia (ANPI, egemonizzata dai partigiani comunisti), i resti di Bisagno, fino a quel momento dimenticati, furono traslati nel famedio degli eroi, nel cimitero di Staglieno.
Indicazioni bibliografiche
Dossier: Resistenza: la guerra civile
IL TIMONE N. 95 – ANNO X II – Luglio/Agosto 2010 – pag. 46
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