Il sacerdote permette che continui la presenza reale di Cristo nella vita del mondo. La natura sacramentale dell’Ordine. La falsa contrapposizione fra celebrazione e predicazione
Il sacramento del ministero apostolico
«Nessuno, né individuo né comunità, può annunziare a se stesso il Vangelo. […] Nessuno può darsi da sé il mandato e la missione di annunziare il Vangelo. L’inviato del Signore parla e agisce non per autorità propria, ma in forza dell’autorità di Cristo; non come membro della comunità, ma parlando ad essa in nome di Cristo. Nessuno può conferire a se stesso la grazia, essa deve essere data e offerta» (Ibid., n. 875).
Tra le cose “visibili” di Gesù c’era la sua autorità. «[…] egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7,29). Questa autorità non veniva a Gesù dallo studio, perché non usciva dalla scuola di qualche rinomato rabbino; anzi, a soli dodici anni, che aveva trascorsi in famiglia, interamente soggetto a Giuseppe e a Maria, poteva già inserirsi in un dibattito rabbinico nel Tempio (cfr. Lc 2,46) Né gli veniva dalla famiglia, dall’essere figlio di un sacerdote: il suo sacerdozio è «secondo l’ordine di Melchisedek» (cfr. Eb 7), cioè assolutamente sganciato da una discendenza e da una eredità umana. Non gli veniva neppure dalla comunità: Gesù non fu scelto dai suoi, ma furono i suoi ad essere scelti da lui: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Anche questa autorità dunque “passa” nei sacramenti della Chiesa. Se essa non può sorgere dalla comunità, né da una discendenza, né da una competenza “professionale”, «Ciò suppone che vi siano ministri della grazia, autorizzati e abilitati da Cristo. Da lui essi ricevono la missione e la facoltà [la “sacra potestà”] di agire “in persona di Cristo Capo”. La tradizione della Chiesa chiama “sacramento” questo ministero, attraverso il quale gli inviati di Cristo compiono e danno per dono di Dio quello che da se stessi non possono né compiere né dare. Il ministero della Chiesa viene conferito mediante uno specifico sacramento» (Catechismo della Chiesa Cattolica, cit., ibidem).
La “vocazione”
Sappiamo che tutti gli uomini e tutti i cristiani hanno una “vocazione”. Tutti siamo chiamati da Dio per una missione. La parola però prende nel caso del sacramento dell’ordine un significato particolare. Se mancano sacerdoti non è possibile puramente e semplicemente “arruolarli”. Se «La messe è molta, ma gli operai sono pochi» (Mt 9,37) che cosa possiamo fare? Gesù non ci dice: assumete degli operai e mandateli nella messe, ma: «Pregate […] il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (v. 38). La messe è sua e gli operai li può mandare solo lui. Essi sono un dono e un dono può essere cercato solo con la preghiera. Possiamo favorire le vocazioni, accoglierle, aiutarle, prepararle, ma solo lui le può fare. Il sacramento infatti, anche se amministrato dalla Chiesa, è sempre e soprattutto azione del Signore Gesù. Questo sottolinea fortemente il carattere “sacro” del ministero sacerdotale e mette nello stesso tempo in luce la ragione profonda della sua crisi contemporanea. Nella misura in cui si è perso il senso del sacro e si comprende solo il “funzionale”, non si può apprezzare il significato profondo del sacerdozio.
Si tende anzi a evitare la parola “sacerdozio/sacerdote”. Si è diffusa infatti la convinzione – sotto la pressione dell’esegesi e della teologia protestante – che la novità del cristianesimo in questo campo sia consistita proprio in una desacralizzazione dei ministeri, in una presa di distanza dialettica dal sacerdozio dell’Antico Testamento e – a maggior ragione – da quello pagano. Certamente la differenza tra l’antico sacerdozio e quello istituito da Gesù è enorme. Con la venuta di Cristo infatti vi è ormai un unico e compiuto sacrificio e quindi un unico e perfetto sacerdote (cfr. Eb 7,27; 9,12.25-28, 10,10-12). Ciò non significa però che il sacerdozio sia abolito («non son venuto per abolire, ma per dare compimento» Mt 5,17), vuol dire solo che è profondamente cambiata la sua natura: il sacerdote non è una espressione della famiglia o della comunità, non è più il membro di una casta che si perpetua per generazione (il che evidenzia tra l’altro la fortissima convenienza del celibato). Il sacerdote del Nuovo Testamento è un chiamato da Dio e la Chiesa nei suoi confronti ha solo la funzione di riconoscere e verificare la sua chiamata e quindi di trasmettergli il potere che a ciò corrisponde, potere che essa ha ricevuto da Cristo, con un rito sacramentale. Se ormai esiste un unico Sacerdote, il sacerdote del Nuovo Testamento non è un altro sacerdote rispetto a lui, ma ne è il “santo segno”, il “sacramento”; è – secondo l’espressione di sant’Agostino – servo di Dio e servo di Cristo, cioè “ministro” di Dio e di Cristo.
Ora, «[…] il servo può dare nel santo segno ciò di cui egli di suo non è in grado» (J. Ratzinger, Ministero e vita dei sacerdoti, p. 174). Il sacramento dell’Ordine imprime un “carattere”. Il termine lo si trova anche nel linguaggio militare romano: il legionario infatti veniva marchiato a fuoco con un segno (latino character) che indicava la sua definitiva appartenenza alla legione. La dottrina del “carattere” esprime questo aspetto di identificazione a Cristo del sacerdote che garantisce la validità dei sacramenti da lui amministrati nonostante la sua eventuale indegnità, ma indica anche eloquentemente dove porta l’autentica spiritualità sacerdotale: il sacerdote sarà tanto più sé stesso e tanto più grande sarà l’efficacia del suo ministero, quanto più si identificherà a Cristo nel cuore, nella mente e nell’agire. Non è la santità personale che fa il sacerdote (è la santità di Cristo…), ma ciò non toglie che «Dipende dalla santità la credibilità della testimonianza e, in definitiva, l’efficacia stessa della missione di ogni sacerdote» (Benedetto XVI, Udienza generale del 5 agosto 2009).
Sacerdote e/o predicatore?
Alla luce di quanto detto allora qual è l’agire principale e – per così dire – caratteristico del sacerdote? La storia ci ha posto davanti due concezioni contrapposte: quella di Lutero, secondo cui il ministro del Nuovo Testamento è un predicatore e quella del Concilio di Trento per cui il sacerdote è finalizzato alla celebrazione dell’Eucaristia, cioè dello stesso sacrificio di Gesù reso di nuovo presente sull’altare. Il sacerdote del Nuovo Testamento è soprattutto un predicatore o un “liturgo”? Il Concilio di Trento ha fortemente sottolineato il suo stretto rapporto con l’Eucaristia, perché era quello che Lutero direttamente negava e senza il quale il ministero scivolava fatalmente nel puro funzionale e correva il fatale rischio di secolarizzarsi e burocratizzarsi. Se infatti dalla vita del ministro scompare il santo Sacrificio, la via è aperta alla sua riduzione alle figure secolari del professore, dell’intellettuale, dell’agitatore politico, dell’assistente o dell’animatore sociale.
Il Concilio ecumenico Vaticano II, con il suo caratteristico stile pastorale (che non significa affatto non-dottrinale), ha completato il quadro integrando la dottrina di Trento e ha mostrato che la dialettica luterana tra predicatore e liturgo era in fondo una falsa dialettica, tenendo in dovuto conto anche i decreti tridentini di riforma (i decreti pastorali del Concilio di Trento), che i teologi hanno poi purtroppo lasciato cadere. Come infatti Gesù è stato prima di tutto un annunciatore del Regno di Dio, ma di un Regno di Dio che finiva per identificarsi con la sua persona, così i sacerdoti «hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il vangelo di Dio» (Presbyterorum Ordinis, n. 4), cioè il Signore Gesù. Dato però che il servizio messianico di Gesù si è compiuto sulla Croce per riversare con la Resurrezione la sua efficacia sul mondo, ecco allora che il ministero dei sacerdoti trova nell’offerta incruenta e sacramentale del sacrificio di Cristo «la sua perfetta realizzazione» (ibid., n. 2).
Questi due momenti sono strettamente legati e in questo legame sta il loro carattere sacro e sacramentale. L’annuncio della Parola, per quanto di norma richieda anche lo studio e una adeguata preparazione scientifica, non è un atto meramente accademico e intellettuale.
Il sacerdote deve offrire a Dio la sua voce, perché attraverso di essa nelle tante parole della Scrittura e della Tradizione della Chiesa si affermi l’unica Parola di Dio che è Cristo e deve guardarsi bene dal comunicare una sua sapienza personale ed “originale”. Così facendo prepara i fedeli alla partecipazione all’unico sacrificio di Cristo reso di nuovo presente nei santi misteri della Messa e li dispone a diventare a loro volta «un sacrificio perenne a [Dio] gradito» (Preghiera eucaristica III). Il ministero della parola è dunque come il “sale” con cui si sala la vittima per il sacrificio (cfr. Lv 2,13; Ez 43,24). «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa si salerà?» (Mt 5,13).
Se l’annuncio della Parola non è solo “lezione”, occasione e stimolo per una ricerca e una discussione, ma ha invece una struttura sacramentale, è cioè un “fare” e un “trasformare”, deve trovare nel dialogo intimo e personale con il Signore la sua ispirazione e la sua sorgente. Ecco allora che il primo e primissimo dovere del sacerdote diventa la preghiera: «Noi […] ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola» (At 6,4).
Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 874-896; 1536-1600.
Joseph Ratzinger, Ministero e vita dei sacerdoti, in: Idem, La Comunione nella Chiesa, San Paolo, 2004, pp. 163-187.
Idem, Elementi di teologia fondamentale.
Saggi sulla fede e sul ministero, Morcelliana, 1986, pp. 145-219.
Emmanuel André, O.S.B., Sacerdozio e ministero, Cantagalli, 1979.
Philip Goyret, Chiamati, consacrati, inviati. Il sacramento dell’Ordine, Libreria Editrice
Vaticana, 2003.
Antonio Maria Sicari, Giovanni Maria Vianney, curato d’Ars, in Ritratti di Santi, vol. 1, Jaca Book, 1988.
PREGHIERA PER L’ANNO SACERDOTALE
Signore Gesù, che in san Giovanni Maria Vianney hai voluto donare alla Chiesa una toccante immagine della tua carità pastorale, fa’ che, in sua compagnia e sorretti dal suo esempio, viviamo in pienezza quest’Anno Sacerdotale.
Fa’ che, sostando come lui davanti all’Eucaristia, possiamo imparare quanto sia semplice e quotidiana la tua parola che ci ammaestra; tenero l’amore con cui accogli i peccatori pentiti; consolante l’abbandono confidente alla tua Madre Immacolata.
Fa’, o Signore Gesù, che, per intercessione del Santo Curato d’Ars, le famiglie cristiane divengano «piccole chiese», in cui tutte le vocazioni e tutti i carismi, donati dal tuo Santo Spirito, possano essere accolti e valorizzati. Concedici, Signore Gesù, di poter ripetere con lo stesso ardore del Santo Curato le parole con cui egli soleva rivolgersi a Te:
«Ti amo, o mio Dio, e il mio solo desiderio è di amarti fino all’ultimo respiro della mia vita. Ti amo, o Dio infinitamente amabile, e preferisco morire amandoti piuttosto che vivere un solo istante senza amarti. Ti amo, Signore, e l’unica grazia che ti chiedo è di amarti eternamente.
Mio Dio, se la mia lingua non può dirti ad ogni istante che ti amo, voglio che il mio cuore te lo ripeta tante volte quante volte respiro.
Ti amo, o mio Divino Salvatore, perché sei stato crocifisso per me, e mi tieni quaggiù crocifisso con Te. Mio Dio, fammi la grazia di morire amandoti e sapendo che ti amo». Amen.
(Benedetto XVI)
Dossier: Sacerdote per sempre
IL TIMONE N. 88 – ANNO XI – Dicembre 2009 – pag. 36 – 38
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