Per la società secolarizzata il malato è un peso, un guaio, un disturbo. Invece il cristianesimo insegna l’accettazione e la valorizzazione dello stato di debolezza e di infermità.
Chi soffre partecipa con la sua pena al misterioso progetto redentivo di Cristo.
Il mito dell’efficienza
L’ideale generalizzato della nostra società, il mitico personaggio cantato da tutte le voci amplificate del nostro tempo, non è l’eroe o il santo, non è cioè uno che sa donarsi e agire per gli altri: è piuttosto chi è capace di vivere al meglio per sé. È l’uomo giovane, sano, bello e soprattutto efficiente, che dispone della massima attitudine ad affermarsi e a godere; è l’uomo che s’impone, produce, consuma; è l’uomo «in forma», che nella sua «forma» trova non solo le premesse del successo, ma addirittura il significato esauriente del suo stesso esistere.
Ogni fisica decadenza è per la mentalità di questo secolo una vergogna e una colpa. In un mondo che esalta i giovani e i sani, invecchiare o ammalarsi appare una sventura, contro cui si deve lottare fino allo spasimo, e sembra altresì percepito come qualcosa di disonorevole, da nascondere alla vista altrui e, per quel che si può, anche alla propria. Con questa mentalità è difficile che il fenomeno della malattia possa essere accolto come fatto del tutto normale, prevedibile, «legittimo» dell’esistenza.
Il rifiuto culturale della malattia
La malattia viene combattuta – ed è cosa giusta e provvidenziale – con i sofisticati strumenti di cui l’arte medica si è dotata. Ma al tempo stesso ci s’interdice l’atteggiamento più semplice e previo, che è la comprensione, l’accettazione e anche la valorizzazione dello stato di debolezza e di infermità che presto o tardi sopraggiunge per ogni uomo. È quasi fatale allora che, almeno inavvertitamente, non solo la malattia, ma altresì il malato sia sentito come peso, come guaio, come qualcuno che scompiglia i nostri progetti e ci guasta la bella festa della vita: è fatale che nasca nei suoi confronti un atteggiamento istintivo se non di ostilità, certo di mal dominato fastidio.
La malattia – secondo l’antropologia oggi prevalente, che almeno inconsciamente condiziona un po’ tutti – non dovrebbe esistere. Però c’è: e allora, non potendo eliminarla come fatto, si cerca di eliminarla come pensiero; la sua cura va il più possibile delegata; il disagio che provoca deve interferire al minimo nella giornata dei sani; il suo triste spettacolo deve essere censurato.
Il caso estremo di tale atteggiamento di rifiuto della realtà si ha quando ci s’imbatte nella morte. La morte non è più vista come un evento normale che, una volta esauriti tutti gli sforzi doverosi per rimandarlo, va riconosciuto come uno dei dati del problema dell’esistere, e anzi va trasfigurato in occasione di salutari riflessioni; al contrario, è ritenuta una specie di oltraggio alla nostra maestà, un’ingiusta aggressione da cui ci si difende, non potendolo fare in altro modo, soffocando ogni suo oggettivo ricordo e proibendosi ogni interiore attenzione. Così noi vediamo che la morte, di questi tempi, non è più stimata qualcosa di «socializzabile» e non dà luogo a nessuna esplicita elaborazione culturale. È tenuta il più possibile «dietro il paravento» e non viene mai pubblicamente menzionata, se non talvolta come minaccia nel linguaggio rozzo e sciagurato degli operatori di violenza.
I nuovi tabù
È sintomatica la precauzione con la quale la malattia e la morte sono celate ai piccoli: i bambini, si pensa, non devono sapere le cose come stanno. Curiosamente si ritiene giusto e saggio prepararli all’impatto con la realtà, nascondendo la realtà ai loro occhi e alla loro facoltà di riflettere.
In genere, di malattia e di morte non si può nemmeno parlare tra persone civili, se non per allusioni ed eufemismi: sono, a ben vedere, i nuovi tabù di un’umanità che immagina di essere diventata libera e spregiudicata solo perché ha dato libera cittadinanza alle aberrazioni sessuali e al turpiloquio.
Una cultura non realistica
Tutto ciò è un aspetto del più generale atteggiamento illuministico, che ormai da più di due secoli cerca di sostituirsi alla visione cristiana.
Prima però di sottolinearne l’ispirazione antievangelica, è utile rilevare il carattere mitico e non razionale di questa cultura: essa non parte mai dalla comprensione delle cose come stanno, ma tenta sempre di imporre alla realtà un’ideologia su cui non si accetta di discutere; un’ideologia individualistica, «laica», edonistica, senza valori assoluti e senza sguardi oltre il tempo.
Secondo questa mentalità ciò che non piace, com’è il caso della malattia e della morte, non deve esserci; o, se c’è, va confinato e reso socialmente irrilevante. Ma il rifiuto della realtà comporta il rifiuto dell’uomo e si pongono così le premesse per una crescente disumanizzazione della vita, e quindi della sofferenza, dell’infermità, dell’ultima ora. Il mistero del dolore umano, quando è così incompreso e dissacrato, diventa una pura assurdità e non è più sopportabile.
Verso la gioia
Va chiarito che il cristianesimo non esalta né il dolore né l’infermità né la morte, quasi fossero beni in assoluto. Al contrario, ritiene che, per essere accettati e trasformati in valori, il dolore, l’infermità e la morte devono essere oltrepassati in modo che appaia la loro natura di «via» e non di traguardo, di mezzo e non di fine. Non è il Venerdì Santo la pagina conclusiva della storia di salvezza, ma la Pasqua di risurrezione, nella quale tutta la ricchezza del Venerdì Santo è presente e viva, ma al tempo stesso è superata e tramutata nella nuova condizione di gioia e di gloria. Anche il cristiano dunque ritiene doveroso e lodevole l’impegno ad alleviare il dolore, a guarire i mali, a rimandare la morte. L’esempio del Signore Gesù ci conforta e ci incita a operare coerentemente a questo scopo, per quel che ci è consentito. Non per niente l’idea dell’«ospedale», cioè della cura pubblica del malato, storicamente nasce e fiorisce entro la «res-publica christiana» a opera di uomini pieni di fede e di carità.
Il realismo cristiano
Ma il cristiano è un realista, che guarda in faccia alle cose come stanno; e vede che il dolore non può essere schivato indefinitamente, che nessuno può restare sempre in buona salute, che la morte o presto o tardi arriva per tutti.
Proprio perché è un realista, il cristiano non giudica né sensato né utile distogliere lo sguardo dalle cose come stanno solo perché ci sono sgradite e non ritiene che, di fronte al dolore, alla malattia, alla morte, l’atteggiamento spirituale corretto sia il cercare di non pensarci. La «mentalità di questo secolo», largamente presente anche fra di noi, va su questo punto energicamente contestata.
La fede in Dio
Il cristiano è un realista che crede in Dio e, credendo in Dio, è certo che tutta la realtà, in tutti i suoi stati e in tutti i momenti della sua vicenda, abbia una finalizzazione e un pregio.
Chi pone il caso o un destino cieco a capo del governo del mondo può anche essere indotto ad accogliere l’ipotesi che solo un’età e una condizione dell’uomo – e non tutte le età e tutte le condizioni – abbiano il privilegio di poter essere considerate buone e ricche di senso; ma in tal modo viene necessariamente collocata in un’assurdità senza riscatto la maggior parte dei giorni dell’uomo e in ogni caso la fine del suo dramma.
Se però Dio esiste – come esiste – tutte le ore date all’uomo, dalle più liete alle più angosciose, hanno un significato e un valore. A noi tocca ricercarlo, scoprirlo alla luce della fede, farne principio di serenità dello spirito e di pace interiore.
Se Dio esiste – come esiste – l’uomo che egli ha creato a propria immagine vale per il fatto che è, e non per quello che è in grado di fare, di godere, di produrre, di consumare; e dunque vale fino al suo ultimo respiro.
Dio come risposta e non come difficoltà
Proprio per il suo realismo, il cristiano non pensa a Dio come a un’idea che è insidiata dall’esperienza del dolore del mondo, come a qualcuno di cui viene voglia di dubitare in conseguenza dei mali in cui ci si imbatte, come al diretto responsabile dei nostri guai, così che, una volta eliminato il suo concetto, anche i guai se ne dovrebbero andare.
Proprio perché è un realista, il cristiano parte dalla presenza del dolore nell’umanità, ineliminabile in ogni caso, per arrivare ad accogliere l’iniziativa salvifica di Cristo e la rivelazione del Padre come l’unica risposta esistenziale all’enigma dell’uomo che soffre. Questa risposta è senza dubbio irta di difficoltà, misteriosa, piena di interrogativi irrisolti, ma non c’è altra alternativa possibile alla dichiarazione del nostro radicale fallimento e alla nostra disperazione.
Si tratta dunque di non lasciare che la sofferenza diventi l’occasione della perdita della fede. Si tratta – se si vuol essere realisti e concreti – di capire che la fede in Dio è la sola strada percorribile da parte di chi non vuole perdere del tutto la fede nella sorte dell’uomo.
Sofferenza e peccato
Il credente non dimentica che quanto è avvenuto sul Calvario sta alla radice di tutta l’esistenza cristiana ed è al centro stesso della storia dell’umanità.
Sul Golgota, appare chiara l’intrinseca relazione che c’è tra il dolore e il peccato. Il Figlio di Dio crocifisso soffre perché «è stato computato tra gli empi» (Is 53,12). Solo in una visione atea delle cose si può ritenere inaccettabile un’idea che è fortemente radicata nella coscienza cristiana: i mali sono un paterno castigo di Dio, il quale in tal modo riafferma energicamente la necessità che sia rispettato l’ordine della giustizia.
«Il male rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell’uomo come conseguenza dei peccati concreti… tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è chiamato “il peccato del mondo”, dallo sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell’uomo. Se non è lecito applicare qui il criterio ristretto della diretta dipendenza… tuttavia non si può neanche rinunciare al criterio che, alla base delle umane sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato» (Salvifici Doloris 15).
Pur se non è automatico e rigidamente proporzionale il rapporto tra il male patito da un singolo uomo e la sua personale condotta colpevole, è importante che alla luce della fede ciascuno di noi non perda l’occasione di espiare le proprie ingiustizie e purificare la propria anima attraverso la sofferenza, considerandola come un dono della misericordia di Dio.
Sofferenza e redenzione
Quel che è avvenuto sul Golgota, dove il solo uomo innocente «è stato schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53,5), ci fa capire che la sofferenza ha soprattutto un’essenziale dimensione redentiva.
Chi soffre, se accetta di rivivere in sé il mistero della croce di Cristo, soffre sempre anche per la salvezza del mondo.
Come Gesù, anche noi proprio nello spasimo siamo in grado di dimostrare meglio l’amore, cioè l’adesione al Padre e alla sua volontà, e questa straordinaria energia di amore – di Cristo e di coloro che si uniscono a lui – consente all’umanità di riscattarsi e di rinnovarsi.
Perciò il nostro Salvatore parla del dolore umano in termini di «croce» – evocando in tal modo la sua stessa passione – per fare capire che anche noi entriamo con la nostra pena in questo misterioso progetto redentivo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me… prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23).
IL TIMONE – N.61 – ANNO IX – Marzo 2007 pag. 48-49