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9.12.2024

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Il terrorismo? E’ sempre un’infamia
31 Gennaio 2014

Il terrorismo? E’ sempre un’infamia

 

 

 

Che cos’è il terrorismo? C’è un legame fra terrorismo e religione? Un approccio al fenomeno attraverso il Magistero.

 

 

Parlando al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 9 gennaio 2006, papa Benedetto XVI denuncia il «terrorismo organizzato, che si estende ormai a livello planetario». Certo, di questo terrorismo «numerose sono le cause», ma il Papa non dà credito a chi le riduce alle sole situazioni di disagio o di povertà: al contrario, cita cause «ideologico-politiche commiste ad aberranti concezioni religiose». E la condanna, ribadendo che i fini non giustificano mai i mezzi, è tra le più forti nella storia del magistero: «Nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale».

Una definizione
Ma che cos'è il terrorismo? Si afferma spesso che ogni definizione di terrorismo è politica, e che chi per una parte è un terrorista per la parte opposta è un combattente per la libertà. Oggi però ci sono definizioni piuttosto chiare del terrorismo nel diritto internazionale, in particolare quella della Convenzione internazionale per l'eliminazione dei finanziamenti al terrorismo, votata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1999 e richiamata in numerosi testi successivi. Questa convenzione definisce come "terrorismo" le attività non compiute da Stati o da governi che, secondo l'articolo 2 comma 1, «intendono causare la morte o un grave danno fisico a un civile, o comunque a chi non 22 prenda parte attiva alle ostilità in una situazione di conflitto armato, quando lo scopo di queste attività – ricavato dalla natura o dal contesto – è quello di intimidire la popolazione, o di costringere un governo o un ente internazionale a porre in essere ovvero a non porre in essere un determinato comportamento».
Pertanto, dal punto di vista del diritto internazionale, non è terrorismo un bombardamento anche volto contro la popolazione civile da parte di un governo in quanto il terrorismo è atto proprio di organizzazioni private. Beninteso, i governi possono commettere azioni immorali e crimini di guerra che in nessun caso possono essere giustificati dalla morale: ma non si tratta di terrorismo. Neppure è terrorismo l'attacco a una caserma di militari impegnati in una guerra da parte di un gruppo d'insorti, perché in questo caso l'obiettivo dell'attacco non è costituito da civili non combattenti. Viceversa, le attività di Hamas in Palestina o dell'organizzazione dei talebani in Afghanistan (che sono gruppi privati) sono atti di terrorismo quando prendono di mira civili, spesso semplici passanti.
Dal punto di vista giuridico, e – come ci ricorda di continuo il magistero della Chiesa – anche da quello morale, è importante distinguere il giudizio sul fine e il giudizio sui mezzi. Il terrorismo è sempre illegale e immorale, per quanto nobile sia lo scopo che afferma di prefiggersi. Se qualcuno, al nobile scopo di protestare contro il regime nazional-socialista, avesse fatto saltare in aria un ristorante bavarese pieno di pacifiche famigliole tedesche in gita domenicale, avrebbe compiuto un atto di terrorismo, non di resistenza legittima. Il fine non giustifica i mezzi, e solo dopo avere condannato il mezzo del terrorismo come sempre illegittimo si può aprire una discussione sui fini.
Naturalmente, il giudizio sul terrorismo deve corrispondere a criteri obiettivi, non alle opinioni soggettive di chi pone in essere attentati terroristici.
Nessun terrorista pensa di esserlo. Questo equivoco domina testi pure per altri versi interessanti, come quello del sociologo (e sottosegretario alla Giustizia nell'ultimo governo Prodi) Luigi Manconi dal titolo Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale, 1970-2008 (Mondadori, 2008). Manconi dà molto rilievo al fatto che i membri delle Brigate Rosse – e anche altri partecipanti alla lotta armata degli "anni di piombo" come Cesare Battisti, di cui molto si è parlato in questi mesi – fossero convinti di non essere terroristi ma combattenti di una guerra contro lo Stato e l'imperialismo delle multinazionali in nome del marxismo-Ieninismo. Anche a prescindere dal caso specifico di Battisti, che è al limite tra terrorismo politico e criminalità comune, qui il problema è distinguere fra lo stato d'animo soggettivo e la natura oggettiva degli atti compiuti. Lo stato d'animo non è irrilevante, e lo stesso ordinamento giuridico può prenderlo in considerazione come attenuante ovvero come aggravante. Ma non è decisivo per stabilire se si tratti o meno di terrorismo.
Soggettivamente, i brigatisti rossi o anche Battisti potevano essersi convinti di essere soldati di una guerra comunista contro lo Stato e il capitalismo internazionale. Oggettivamente, però, non erano militari ma privati, e attaccavano principalmente obiettivi che non erano militari ma civili. Erano dunque terroristi, a prescindere dalle loro motivazioni, auto-definizioni e convinzioni.

L'esempio delle Brigate Rosse – molti dei cui militanti erano, secondo ogni comune standard, persone intelligenti e di buona scolarizzazione e cultura smentisce anche lo stereotipo, che talora emerge in studi sul terrorismo di matrice islamica, secondo cui il terrorismo sarebbe un fenomeno di disagio sociale di cui sarebbero protagonisti "marginali" incolti e disperati. Non è così. Per quanto riguarda Hamas, per esempio, secondo uno studio del pakistano Nasra Hassan, «nessuno dei protagonisti dei suoi attentati suicidi era senza istruzione, disperatamente povero, semplice di mente o depresso. La maggioranza apparteneva alla classe media e – a meno che si trattasse di latitanti – aveva un buon lavoro. Più di metà veniva da quello che ora è Israele. Due erano figli di milionari. Tutti sembravano membri assolutamente normali delle loro famiglie. Erano bene educati e seri, e nelle loro comunità erano considerati giovani modello». Lo stesso discorso vale per AI Qaida e per l'11 settembre, i cui principali protagonisti avevano ricevuto un'educazione universitaria in Occidente.

Anche in Cecenia lo studio delle biografie delle terroriste (principalmente donne) smentisce lo stereotipo secondo cui si tratterebbe sempre di contadine ignoranti e disperate. Lo conferma l'esempio di Zarina Alikhanova (1976-2003), la terrorista suicida dell'attentato del 12 maggio 2003 a Znamenskoye, uno dei più sanguinosi (sessanta morti). Nata in Kazakhistan da padre ceceno, funzionario del ministero degli Interni, e madre dell'lnguscezia, proprietaria di magazzini commerciali, Zarina è una studentessa modello in una elitaria scuola tedesca. La sua passione è il balletto, e una rapida carriera al Teatro dell'Opera di Alma Ata culmina nell'interpretazione in una produzione del Romeo e Giulietta di Sergey Prokofiev. Tramite parenti di Grozny, entra in contatto con la guerriglia cecena, ne sposa un dirigente e – dopo la morte del marito nel 1999 – passa al terrorismo. Zarina Alikhanova assomiglia molto agli esponenti della borghesia palestinese o araba che troviamo in Hamas o in AI Qaida, e molto poco allo stereotipo della contadina disperata. Il terrorismo nasce raramente dalla miseria: quasi sempre nasce dall'ideologia.

Terrorismo e religione
Nasce dalla religione? Lo si è sostenuto dopo l'11 settembre, e il terrorismo è stato citato come prova del fatto che "la religione fa male". Molti studi del cosiddetto "estremismo religioso" perdono tuttavia di vista un elemento cruciale: questo estremismo porta molto raramente alla violenza. Migliaia di "sètte" e movimenti fondamentalisti fioriscono in ogni regione del globo e nelle più disparate tradizioni religiose. Credenze e comportamenti devianti coprono ogni concepibile aspetto della vita umana e spesso richiedono un livello sorprendentemente alto di sacrificio e di obbedienza. Eppure pochi gruppi religiosi estremisti commettono atti criminali, meno ancora ricorrono alla violenza, e i movimenti che incoraggiano il suicidio e l'omicidio si contano sulle dita di una mano. È inevitabile che le eccezioni siano seguite con enorme attenzione dai giornalisti, dagli studiosi e dall'opinione pubblica in generale: ma questo avviene precisamente perché si tratta di casi eccezionali.

Gli studi sull'estremismo religioso soffrono tipicamente di errori di campionamento, in quanto si concentrano sui pochi gruppi violenti e ignorano la grande maggioranza non violenta; e di pregiudizi interpretativi, perché mettono sullo stesso piano la retorica violenta di molti gruppi con le azioni violente di pochi. A riprova del fatto che "le religioni" in genere sarebbero inclini al terrorismo, molti citano gli attentati compiuti da militanti cristiani negli Stati Uniti contro le cliniche e i dottori che praticano l'aborto. Si tratta in effetti di azioni di privati contro obiettivi non militari, quindi di terrorismo. Ma i pochissimi che hanno compiuto questi attentati non hanno ricevuto nessun sostegno istituzionale da parte delle Chiese e comunità cristiane, e le loro azioni sono state condannate – come oggi si dice – "senza se e senza ma" praticamente da tutti i leader cattolici e protestanti conservatori degli Stati Uniti, compresi quelli che si oppongono con maggiore veemenza all'aborto.

Per quanto la conclusione possa essere poco "politicamente corretta", non si può non concludere che il problema del terrorismo non riguarda "le , religioni", ma una specifica religione: l'islam. Certamente non tutti i musulmani sono fondamentalisti e neppure tutti i musulmani fondamentalisti , sono terroristi. Tuttavia, ed è una differenza fondamentale rispetto a quanto avviene nel caso dell'anti-abortismo cristiano, nel mondo islamico – particolarmente (ma non esclusivamente) in Medio Oriente – esistono vere e proprie organizzazioni che godono del sostegno di vasti network all'interno della tradizione religiosa di cui fanno parte e che reclutano, addestrano e organizzano i terroristi. Una parte cospicua, forse maggioritaria, delle autorità islamiche ne giustifica gli attentati, almeno quando sono diretti contro obiettivi ricollegabili a Israele. Come Benedetto XVI – da Ratisbona al viaggio in Turchia e oltre – ha avuto occasione di ribadire più volte, c'è nell'islam un effettivo problema dottrinale quanto alla distinzione fra fini e mezzi. Solo la maturazione all'interno dell'islam di una riflessione che porti a condannare sempre e comunque il terrorismo come mezzo a prescindere da qualunque discussione sui fini potrà recare sollievo a una tesa situazione internazionale in cui – sono ancora parole di Benedetto XVI nel discorso del 9 gennaio 2006 al Corpo Diplomatico – «non a torto si è ravvisato il pericolo di uno scontro delle civiltà».

 
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
 

Laurence R. lannaccone – Massimo Introvigne, Il mercato dei martiri. L'industria del terrorismo suicida, Lindau, 2004.
M. Introvigne, Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, Elledici, 2003.
M. Introvigne, Fondamentalismi. I diversi volti dell'intransigenza religiosa, Piemme, 2004.

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 82 – ANNO XI – Aprile 2009 – pag. 22 – 24

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