Un coraggioso vescovo della Chiesa cattolica scrive al Presidente della Repubblica.
Per ricordargli che Garibaldi non è un eroe e che il Risorgimento va riscritto. Solo così è possibile una rivincita morale, civile e religiosa per la nostra Italia.
Che cosa può aver indotto mons. Andrea Gemma, figlio di don Orione e vescovo di Isernia-Venafro, al vero e proprio outing che vedete riprodotto nel box della pagina a fianco?
Certo, le esternazioni oggi sono di moda e potrebbe sembrare che neppure un vescovo riesca a farne a meno. Ma in genere si tratta di esternazioni di segno opposto. E anche assai meno ardite, se si pensa che il destinatario della lettera di mons. Gemma è nientemeno che il Capo del lo Stato. E il fatto è ancor più eclatante perché è la prima volta che un personaggio non di secondo piano, un’autorità ecclesiastica per di più, prende posizione – e in termini certo poco “politicamente corretti” – su un tema di carattere civile così delicato come quello dell’identità italiana, strettamente legato al progetto del presidente Ciampi intenzionato a ravvivare il sentimento di patria fra gl’italiani.
Come lo stesso presule afferma, a far scattare in lui la molla della reazione è stato rilevare che gli appelli presidenziali all’unità della nazione si fondano su una versione ideologica della storia nazionale, la quale per la gente del Mezzogiorno è non solo logora e urtante ripetizione di luoghi comuni, ma suona per non pochi tratti ingiusta, se non addirittura ingiuriosa.
Non è una novità che per larga parte del Sud il Risorgimento è coinciso con una drammatica conquista militare, che inizia con le invasioni napoleoniche, continua con la spedizione garibaldina e con l’invasione sabauda e si conclude con la repressione del cosiddetto “brigantaggio post-unitario”.
Una conquista cui i meridionali – e non solo loro – hanno in ogni frangente opposto una fiera resistenza, prima nell’Insorgenza anti-francese e anti-giacobina, che infiamma il Mezzogiorno praticamente senza interruzione dal 1798 al 1815, e poi con la guerra del 1860 e la lotta legittimistica e anti-unitaria del 1860-1865. Il Molise è fra le terre dell’ex Regno di Napoli dove la reazione popolare è stata più veemente e i lutti più numerosi. Isernia in particolare è nota per aver opposto nel gennaio 1799 una strenua resistenza contro i francesi del generale Guillaume Duhesme, i quali la espugnarono e la saccheggiarono, provocando – il dato è di Niccolo Rodolico – almeno millecinquecento morti.
All’inizio di ottobre del 1860, mentre le truppe regie stanno arroccandosi sul Volturno lasciando così sguarnite le città non ancora conquistate, Isernia è devastata da reparti di garibaldini, mandati da Napoli – dove si è già insediato l’Eroe dei Due Mondi -per fronteggiare l’agitazione legittimistica divampata nel vuoto di potere. Una temporanea avanzata di contingenti regi da sud riporta però la città sotto la bandiera del re e rianima i lealisti. Per parare la minaccia di una saldatura fra insorgenza popolare e armi borboniche viene dislocato in Molise un nuovo corpo di garibaldini al comando di Francesco Nullo, eroe della conquista della Sicilia. Ma Nullo il 17 ottobre viene duramente battuto vicino a Isernia da reparti borbonici guidati dal maggiore Achille de Liguori, affiancati da migliaia di contadini insorti, i quali, uomini e donne fianco a fianco, assalgono i volontari dispersi e ne fanno giustizia sommaria all’arma bianca. È in questo contesto che maturano le violenze – gli “scheletri ripugnanti” – cui accenna mons. Gemma.
Se l’episodio conferma senz’altro che la vulgata ideologica di una parte della nostra storia non è ormai più sopportata, almeno in certe parti d’Italia, e che gli sforzi della storiografia astiosamente definita “revisionistica” a qualcosa sono serviti, quello che più felicemente impressiona è il tour d’esprit di mons. Gemma. Lungi dalla rivendicazione puntigliosa e amara dei di ritti violati – che pur occorre fare e che egli fa con vigore -, propone infatti di azzerare un contenzioso storico ormai plurisecolare e sterile fra Mezzogiorno e Stato italiano e di preoccuparsi invece di comune accordo di preparare un “abito” civile nuovo e migliore per l’Italia del terzo millennio, soprattutto per i giovani, rinunciando ciascuno a una parte delle proprie ragioni e assumendosi ognuno le sue responsabilità.
I popoli dell’antico Regno non dovranno rimettere in discussione – come mons. Gemma fa per primo – l’attuale Stato nazionale, anche se edificato ai danni di una monarchia millenaria e non di rado benefica per i suoi sudditi.
L’altra parte, dal canto suo, dovrà smettere di reiterare, per inerzia o per malafede, oleografie sempre più povere di significato e soprattutto d’imporre omaggi civico-religiosi a personaggi come “l’avventuriero armato” la cui effigie troneggia in tutte le piazze della Penisola, quasi a perenne monito per i “vinti del Risorgimento”. Censurare la memoria dei “vinti di ieri” e celebrare solo Napoleone, Garibaldi o il “Re galantuomo”, dimenticando le migliaia di italiani del Sud, ma anche del Nord e del Centro, che dalla fine del 1700 all’Unità e oltre scelsero a caro prezzo di schierarsi contro i granatieri francesi e “italici”, le brigate internazionali garibaldine e i bersaglieri e carabinieri sabaudi per esigere il rispetto dell’identità italiana di sempre, significa allontanarsi sempre più da quella “’rivincita’ morale, civile, religiosa che la nostra Italia merita” e che il vescovo d’Isernia – e io con lui – auspica.
Lettera aperta al signor Presidente della Repubblica, dr. Azeglio Ciampi
Signor Presidente,
perdoni l’iniziativa, che so attuata anche da altri e ciò mi conferma nella necessità di levare la voce perché certi luoghi comuni, ormai diventati insopportabili, non continuino ad ingannare i semplici.
Partecipavo con gioia ed intima partecipazione alla “festa dell’unità d’Italia e delle forze armate” il 4 novembre scorso. Avevamo insieme pregato in Cattedrale – anche per Lei signor Presidente – e ci eravamo recati al monumento ai caduti in una mattinata piena di sole.
Tutto bello, tutto coralmente sentito, compreso l’inno nazionale d’Italia. Poi, la doccia fredda: il suo messaggio, signor Presidente. Alti pensieri, nobili richiami, doverosa partecipazione. In questo contesto tanto elevato, l’accenno al Risorgimento e, addirittura, a quel Garibaldi che, creda, ad Isernia è tristemente famoso, insieme alle sue truppe mercenarie. Ah, no, signor Presidente, quel richiamo a una storia, per fortuna quasi dimenticata, è stato proprio fuori luogo.
Creda – e glielo dice un pastore della Chiesa cattolica – nessuno di noi vuole tornare indietro di centocinquant’anni, se non altro per non riaprire le piaghe sanguinanti; nessuno di noi vuole ripristinare il regno di Napoli e la dinastia borbonica, dalla quale peraltro il Sud ha ricevuto grandi benefici; nessuno di noi vuole rimettere in piedi lo Stato pontificio, sottratto al legittimo sovrano, con guerra non dichiarata e quindi contro lo “ius gentium”, plurisecolare; nessuno di noi vuole frazionare l’Italia (semmai ci penserà qualche porzione della nostra classe dirigente); ma nessuno ci potrà convincere della bellezza esaltante di un’azione che a suo tempo tutta l’Europa, per non dire il mondo intero, ha stigmatizzato coralmente; nessuno potrà accettare l’accomodante esaltazione di un avventuriero armato che con le sue truppe mise a ferro e fuoco le pacifiche zone del Sud, tra cui la mia città episcopale. Le teste tagliate degli iserniani esposte al pubblico ludibrio sono su stampe e documenti dell’epoca che Ella stessa potrà reperire. Nessuno di noi vuole rivangare il passato, signor Presidente, soprattutto un tale passato…
Non lo può fare nemmeno Lei, travisando la storia. Su casi del genere gli antichi nostri avi dicevano saggiamente: “Parce sepultis!”. Per carità, signor Presidente, non ci costringa a tirar fuori dagli armadi del cosiddetto risorgimento certi scheletri ripugnanti…
Cerchiamo insieme di costruire un’Italia migliore, insieme ai nostri giovani, i quali conoscono la storia e guardano al futuro, senza ripristinare insopportabili travisamenti di una storia che ormai i più avveduti conoscono. Le suggerisco, al riguardo, la lettura di un simpatico libro di una giovane studiosa d’Italia: “Risorgimento da riscrivere”. E poi, appena sarà pronto. Le invierò, in omaggio per la sua segreteria, un libro che un mio presbitero ha scritto e per il quale ha già ottenuto un plauso internazionale. Lasci stare il “risorgimento” signor Presidente e parliamo insieme di “rivincita” morale, civile, religiosa che la nostra Italia merita e di cui tutti, insieme, vogliamo essere artefici operosi, senza nostalgie per un passato non troppo antico, che ha assai poco da insegnarci. Perdoni l’ardire, signor Presidente, ma non potevo tenermi dentro quanto qui Le ho semplicemente accennato.
“Nessun silenzio comprato!” – è uno dei miei motti preferiti. Con deferente ossequio, La saluto
Andrea Gemma, vescovo di Isernia-Venafro
IL TIMONE N. 18 – ANNO IV – Marzo/Aprile 2002 – pag. 14 – 15