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Immigrazione. Quando la retorica uccide
31 Gennaio 2014

Immigrazione. Quando la retorica uccide


Il problema immigrazione è cambiato dopo le cosiddette primavere arabe. Oggi i profughi scappano dalle guerre, non per cercare lavoro. Hanno quindi diritto di chiedere asilo politico, come prevede la stessa legge Bossi-Fini. Ma l’Italia non può farlo da sola. L’appello di papa Francesco alle organizzazioni internazionali a “non chiamarsi fuori”

Papa Francesco ha denunciato, a proposito dei morti in mare nei pressi di Lampedusa, la «vergogna» di una «cultura dello scarto» che si preoccupa solo dell’economia, disprezzando le persone e il loro diritto alla vita. Il Papa ci richiama alla dimensione fondamentale del problema, quella morale. Ma certamente non ci invita a trascurare la dimensione sociale e quella politica, su cui occorre riflettere se si vogliono salvare delle vite ed evitare rimedi che potrebbero rivelarsi peggiori dei mali che intendono curare.

La dimensione sociale

Nell’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI fissa tre principi fondamentali relativi alla questione dell’immigrazione.
Il primo è l’affermazione dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate ». Una volta che è arrivato nel Paese di destinazione, il migrante deve vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali inalienabili» e dev’essere sempre trattato come una persona, mai «come una merce».
Il secondo principio è che si devono ugualmente salvaguardare i diritti «delle società di approdo degli stessi emigrati »: diritti non solo alla sicurezza ma anche alla difesa della propria integrità nazionale e della propria identità.
Il terzo principio riguarda i diritti delle società di partenza degli emigrati, che si deve porre attenzione a non svuotare di risorse e di energie, sottraendo loro con l’emigrazione persone che sarebbero utili e necessarie nel Paese di origine. Va sempre posta attenzione al «miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare»: anzitutto dove sono nate, e senza essere costrette o indotte all’emigrazione.

La dimensione politica
I barconi che affondano sono certo un problema morale, ma sono anche un problema politico. In Italia la sinistra soffre di un riflesso condizionato per cui, di fronte a qualunque tragedia, la prima domanda che si pone non è «Che fare?», ma «Possiamo darne la colpa a Berlusconi?». Improvvidamente seguita da qualche ecclesiastico, la sinistra di fronte ai morti di Lampedusa ha quindi cominciato a gridare che la colpa è dei governi Berlusconi che hanno introdotto e mantenuto il reato d’immigrazione clandestina. Qualche volta, naturalmente, la destra soffre di un riflesso condizionato uguale e contrario a quello della sinistra. Ecco dunque qualcuno scendere in piazza assicurando che basterebbe mantenere il reato d’immigrazione clandestina e tutti i problemi sarebbero risolti.
Questa impostazione del problema è sbagliata. Si può discutere se le norme sul reato d’immigrazione clandestina – che esistono anche in altri Paesi europei e che in Italia, al di là del loro indubbio valore simbolico come segnale dell’esistenza di una volontà di governo dell’immigrazione, si sono rivelate di difficilissima applicazione – debbano essere riviste. Ma Lampedusa non c’entra.
Le norme di cui si discute sono state infatti pensate per – e si riferiscono a – un’immigrazione di tipo economico e a persone che vengono in Italia a cercare lavoro. La filosofia, di per sé non sbagliata, della legge Bossi- Fini era improntata al principio secondo cui per venire in Italia legalmente occorre avere un lavoro o una ragionevole speranza di trovarlo. Diversamente, meglio rimanere a casa propria che finire in Italia nella spirale che dalla disoccupazione porta spesso al reclutamento da parte della criminalità organizzata. Oggi, però, non solo in Italia ma in tutta Europa l’immigrazione di tipo economico è in calo: con la crisi non ci sono più posti di lavoro sufficienti per gli europei, figuriamoci per gli immigrati. In molti Paesi, come documentano i libri della specialista francese Michèle Tribalat, il numero più alto d’immigrati arriva per ricongiungimento familiare: una nozione talora interpretata in modo troppo estensivo, causando gravi problemi sociali.
Tutto, poi, è cambiato con le cosiddette – molto cosiddette – primavere arabe e con le crisi politiche che si sono incancrenite in alcuni Paesi africani. L’instabilità politica, che ha portato con sé drammi di tipo economico e umanitario, ha spinto masse senza precedenti a scappare dall’Africa. A scappare senza studiare prima la legge Bossi-Fini, senza chiedersi cosa c’è in Europa, confidando solo nel fatto che peggio di come vanno nel loro Paese «di là» le cose non potranno andare.
Questi nuovi immigrati – la stragrande maggioranza di coloro che muoiono in mare – non fanno parte di un’immigrazione economica ma di una umanitaria. Fuggono da guerre e persecuzioni e si trovano dunque nella situazione di chi in Europa può richiedere asilo o protezione umanitaria. Possiamo baloccarci raccogliendo firme contro o a favore della Bossi-Fini, ma dobbiamo sapere che con costoro quella legge non c’entra nulla. Come ha scritto l’ex-sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, un grande esperto del tema, «lo stesso articolo 10-bis [della Bossi- Fini] che prevede il reato di ingresso clandestino stabilisce al comma 6 che la domanda di asilo o di protezione, che può essere proposta anche un attimo dopo essere arrivati sul suolo italiano, sospende ogni procedimento penale, con estinzione dello stesso al riconoscimento della protezione».
Il problema, però, è fermare i barconi prima che gli scafisti criminali li facciano affondare. È una menzogna sostenere che l’Italia fa poco. Potrebbe fare di più, ma fa già molto, con un impegno della nostra Guardia costiera che merita ogni elogio. Chi non fa nulla è l’Europa. L’Unione Europea moltiplica le dichiarazioni roboanti, magari liquidando gli italiani come razzisti per qualche coro negli stadi di calcio, ma – quando si viene al dunque – rifiuta di affiancare a quelle italiane le navi di altri Paesi per pattugliare il Mediterraneo e soprattutto, invocando la Convenzione di Dublino, rifiuta un’equa distribuzione di coloro che richiedono asilo tra i Paesi dell’Unione. Soprattutto i Paesi del Nord Europa, Germania in testa, continuano a rispondere: «Sbarcano in Italia? Se la sbrighi l’Italia». Un atteggiamento egoista e anche miope, perché finisce per spingere molti a muoversi in Europa come clandestini, facili reclute della criminalità quando non del terrorismo. Anziché mirare a piccoli tornaconti immediati, o cullarsi nell’illusione che l’Italia possa accogliere tutti i profughi, i nostri politici dovrebbero presentare un fronte unito e mettere l’Europa di fronte alle sue responsabilità.

La dimensione morale
Perché – al di là delle belle parole – l’Europa, specie quella del Nord, non vuole i profughi? Perché i profughi costano e creano indubbi problemi sociali. Suscitano la nostra simpatia negli spot televisivi di qualche organizzazione umanitaria. Quando dobbiamo accoglierli nel nostro quartiere, integrare nella scuola i loro figli, pagare per la loro assistenza sanitaria, diventano improvvisamente meno simpatici.
E qui comprendiamo perché Papa Francesco, nel suo viaggio a Lampedusa del 7 luglio 2013, deludendo le aspettative di chi si aspettava che parlasse di politica o magari criticasse la solita Bossi-Fini, ha posto la questione su un piano completamente diverso. Di fronte a tragedie come quella di Lampedusa, ha detto il Papa, «tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io». Il problema è anzitutto culturale. «La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza».
Non ha parlato di politica, il Papa. Ma ha richiamato alle loro responsabilità le «organizzazioni internazionali». Speriamo che qualche funzionario dell’Unione Europea fosse in ascolto. Ma, mentre lamentiamo l’indifferenza e le manipolazioni ai danni dell’Italia dei burocrati europei, non dimentichiamo di fare tutti un esame di coscienza.

Ricorda

«Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo».
(Card. Joseph Ratzinger, Omelia della Messa pro eligendo romano pontefice, Roma 17/4/2005).

IL TIMONE n. 128 – Anno XV – Dicembre 2013 – pag. 18 – 19
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