Le considerazioni del filosofo Francisco de Vitoria sulla conquista spagnola delle Americhe. Che per lui era giustificabile solo per impedire, per «ingerenza umanitaria», i sacrifici umani e il cannibalismo che alcune popolazioni praticavano ritualmente.
La tradizione giusnaturalistica è ricca di voci e di testi di alto profilo, spesso dimenticati, o ricordati solo all’interno di cerchie ristrette di cultori. Francisco de Vitoria (1483-1546) è una di quelle voci, e la sua Relectio de Indis recenter inventis
(Conferenza sugli Indios scoperti di recente) è uno di quei testi. De Vitoria, domenicano spagnolo, insegnò per un ventennio Teologia all’università di Salamanca, dopo essersi specializzato a Parigi sulla Summa teologica di Tommaso d’Aquino: testo da lui adottato per l’insegnamento.
La Relectio de Indis (1539) mette in questione il diritto che i conquistatori avevano di occupare le terre del nuovo mondo e di sottoporre i loro abitanti alla corona di Spagna. Eccone una rapida sintesi.
Gli indigeni dell’America avevano, al momento della scoperta, una certa signoria sulle loro terre e sulle loro cose, espressa in forme di governo e in regole di convivenza. A che titolo, dunque, gli scopritori potevano sottometterli? De Vitoria prende in considerazione varie ipotesi: quella del peccato, quella della infedeltà, quella della demenza. Ammettendo che gli Indios potessero essere considerati peccatori, a causa di costumi non conformi alla morale rivelata, ciò avrebbe tolto loro il diritto ad autogovernarsi?
No, infatti «non si perde la potestà spirituale per il peccato mortale; quindi nemmeno la civile». Ma neppure la non appartenenza degli indigeni alla Chiesa avrebbe tolto loro il diritto a governare i loro territori. Al riguardo, De Vitoria sostiene che anche gli altri non-cristiani (ad esempio i musulmani), e persino gli eretici, avevano il diritto di vivere dei loro beni. Leggiamo al riguardo, che «né il peccato di infedeltà, né altre colpe mortali impediscono agli Indios d’essere veri signori e padroni dei propri beni, tanto pubblicamente come privatamente, e che i cristiani non possono a tal titolo appropriarsi dei beni del territorio di quelli».
Il nostro autore nega anche che gli Indios possano essere considerati alla stregua degli animali bruti, che, non avendo dominio su di sé, neppure possono possedere alcunché. Quanto all’ipotesi che essi siano assimilabili ai dementi, e quindi bisognosi di tutela, egli la rigetta. «Essi non sono dementi, ma hanno l’uso della ragione a loro modo. È evidente che seguono un certo ordine nelle loro cose, che hanno città rette con un certo ordine, hanno matrimoni, magistrati, signori, leggi, industrie, scambi, tutte cose, queste, che richiedono l’uso della ragione. […] Credo che il fatto che a noi sembrino tanto insensati ed ottusi dipenda, per la maggior parte, dalla loro cattiva e barbara educazione».
Dopo aver confutato gli argomenti che volevano giustificare la conquista in base alla presunta inferiorità degli indigeni, De Vitoria discute quelli fondati sui presunti privilegi giuridici dei conquistatori. Anzitutto, l’Imperatore – e il Re di Spagna in quel momento era Imperatore – non è il sovrano del mondo. Non lo è per diritto naturale, se è vero che, «come dice Tommaso, gli uomini per diritto naturale sono tutti liberi». Neppure lo è per diritto divino, dal momento che la Rivelazione non assegna ad alcuno un potere civile universale. Nessuna legge positiva, poi, concede un simile potere. Ma, anche ammettendo che l’Imperatore avesse sovranità sul mondo, ciò non comporterebbe per lui un diritto al possesso personale o alla arbitraria assegnazione delle terre altrui.
Neppure il Sommo Pontefice ha giurisdizione civile sul mondo intero, nel qual caso potrebbe designare i Re di Spagna quali sovrani degli Indios. Non ce l’ha né per diritto naturale né per diritto positivo; e neppure per diritto divino. Pertanto, non si potrebbe muovere una guerra di aggressione agli amerindi motivandola col loro eventuale rifiuto di riconoscere l’autorità del Papa. Del resto, un simile pretesto non era fatto valere neppure nei riguardi dei musulmani. Il nostro autore contesta anche che per giustificare la conquista si potesse addurre il diritto di scoperta; dal momento che esso riguarda le cose prive di proprietario, mentre le terre del nuovo mondo erano possedute dai loro abitanti.
De Vitoria neppure concorda con coloro che avevano visto nella conquista una guerra giusta, motivata dal rifiuto indigeno della predicazione cristiana. Infatti gli indigeni, prima di ricevere la predicazione, sono in una ignoranza senza colpa; e dopo la predicazione, non è detto che il loro rifiuto sia colpevole, poiché essi «non sono obbligati a credere al primo annuncio […], senza assistere a miracoli né avere altre prove a conferma di quello». Occorre piuttosto che la fede sia mostrata come ragionevole, attraverso segni di credibilità. E, al riguardo, non si poteva certo affermare che il primo annuncio loro rivolto fosse credibile: «non sono molto convinto che la fede cristiana sia stata, fino al presente, proposta e annunciata agli Indios in modo tale che essi siano obbligati a crederla […]; al contrario, arrivano notizie di molti scandali, di crimini orrendi e di molte azioni impietose». Resta poi vero che, anche chi fosse colpevole nel non accettare la predicazione, non potrebbe essere convertito con la forza, visto che la conversione ha senso quando è accettata per convinzione.
Insomma, solo se gli indigeni avessero eletto spontaneamente il Re di Spagna come sovrano, un’annessione dei loro territori sarebbe stata legittima. Ma, nelle circostanze date, una elezione sarebbe stata fatalmente viziata dal timore e dall’ignoranza.
Quali possibilità restavano, allora, agli Spagnoli rispetto al nuovo mondo? Secondo De Vitoria, quella di percorrerne le terre, commerciando con i nativi (essendo la libertà di commercio un caposaldo del «diritto delle genti»). Quella di annunciare loro il Vangelo e di proteggere da eventuali rappresaglie i convertiti. Infine, quella di impedire, per «ingerenza umanitaria», i sacrifici umani e il cannibalismo, che alcune popolazioni praticavano ritualmente: solo in questo caso, oltre che per autodifesa, sarebbe stato legittimo l’uso delle armi da parte degli Europei.
Era naturale che il testo di De Vitoria, per il coraggio con cui applicava la tradizione tomista ad un tema di scottante attualità, risultasse dirompente. L’imperatore Carlo V, che pure era un ammiratore di De Vitoria, intervenne per imporre ai domenicani un atteggiamento più prudente in materia. Ciò nonostante, alla dottrina del nostro autore furono ispirate, nel 1542, le Leyes Nuevas de Indias, che resero più umana la condizione degli amerindi sottoposti alla Spagna.
La forza della Relectio – il cui autore è considerato uno dei fondatori del «diritto internazionale» – sta nella pacata analiticità delle considerazioni, piuttosto che nella veemenza dei proclami. Da una decina d’anni l’opera è tradotta in italiano, e sarebbe bene che – nell’era della globalizzazione e del confronto tra le culture – se ne ricavasse un testo di lettura per le scuole superiori.
«Vitoria ha continuato ad essere, fino ai nostri giorni, l’ispiratore della costruzione e della sistematizzazione del diritto internazionale moderno.
Infatti, coloro che oggi, per reazione verso le correnti positiviste che hanno invaso il diritto internazionale, desiderano tornare alle fonti di questo diritto che poggia sui principi giusnaturalisti della convivenza e della comunità naturale dei popoli, si rifanno ai principi di filosofia classica formulati da Vitoria».
(Mariano Fazio, Due rivoluzionari: F. De Vitoria e J.-J. Rousseau, Armando, 1998, p. 107).
Francisco De Vitoria, La questione degli Indios, a cura di Aldo Lamacchia, Levante Editori, 1996.
Aa.Vv., L’universalità dei diritti umani e il pensiero cristiano del ‘500, Rosenberg & Sellier, 1995.