«Io sono il buon pastore»: è uno dei sette passi in cui Gesù, nel vangelo di san Giovanni, definisce se stesso. L’espressione “Io sono” riprende il nome che Dio stesso ha comunicato a Mosè nel famoso episodio del roveto ardente (cfr. Es 3,14). Qui però è declinata in sette modi diversi: Gesù è il vero pane (Gv 6,35 e 48 e 51), la vera luce (8,12), la porta delle pecore (10,7 e 9), il buono, cioè vero, pastore (10,11 e 14), la risurrezione e la vita (11,25), la via, la verità e la vita (14,6), la vera vite (15,1 e 5). I numeri, secondo il pensiero tradizionale e biblico, non sono segni che servono a fare i conti, ma sono soprattutto simboli che stanno a indicare i rapporti soggiacenti all’armonia delle cose. Il sette è il numero della completezza. Qui, praticamente, Gesù spiega l’etimologia del suo nome: Dio (cioè “Io sono”) salva. Dio – in Cristo – ci salva mediante tutta la sua persona e la sua vita, che è espressa in modo completo in tutti quei sette significati. Pastore, come abbiamo già visto in un articolo anteriore, è un termine che evoca, nel mondo antico, non solo un modo umile di guadagnarsi la vita, ma la figura prestigiosa del Re. Basti pensare al Faraone d’Egitto: chi non si ricorda qualche sua immagine in cui reca in mano, con le braccia incrociate sul petto, due misteriosi oggetti simbolo del suo potere e della sua funzione. Uno è l’hekat, un bastone ricurvo all’estremità, in cui non fatichiamo a riconoscere il bastone del pastore. L’altro è il nechech, un bastone da cui, all’estremità superiore, si dipartono delle strisce. Esso è uno strumento di protezione, per scacciare gli animali pericolosi e quindi per proteggere il gregge, ma si è anche ipotizzato che fosse la stilizzazione del geroglifico mes, che significa generare, indicando così nel sovrano una fonte di vita.
Se è vero – come è vero – che in Gesù “il mito diventa storia”, allora l’espressione «io sono il buon [il vero] pastore» prende un significato un po’ diverso rispetto a quello a cui siamo abituati. Gesù non è un “pastorello”, ma l’incarnazione divina di ogni vera e autentica autorità. Non un autocrate lontano e disinteressato ai suoi sudditi, ma qualcuno che ti conosce a fondo e che vuole che tu lo conosca: «conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». Qualunque autorità vera si stabilisce e si nutre di un rapporto di conoscenza e amore. Qualunque autorità umana, soprattutto quando è molto estesa, si trova nell’impossibilità di conoscere per nome tutti i suoi sottoposti. Non è così per Gesù, il «vero pastore». Anche un padre e una madre spesso si trovano, pur con tutta la loro buona volontà, davanti al mistero dei loro figli, che si rivelano loro a volte come degli autentici sconosciuti. Con Gesù si apre la possibilità di una conoscenza reciproca vera e indistruttibile, per cui si è in grado – in mezzo al frastuono più assordante del mondo – di riconoscere la sua voce, come l’inconfondibile voce dell’amato.
Il regno di Gesù, infatti, è un regno di “verità, amore e pace”. Quello che in fondo al loro cuore ogni uomo e donna di questo mondo cercano e desiderano. Oggi viviamo nel bel mezzo di una terribile crisi dell’autorità. Parole come “autorità, gerarchia, obbedienza” evocano per lo più sentimenti di fastidio e rifiuto. Spesso, ma non sempre, perché esse sono vissute male ed esemplificate in modi tutt’altro che convincenti. Molto molto spesso però a causa di un clima ideologico e culturale costruito sull’orgoglio, sull’idolatria del proprio io, padrone assoluto a cui nessuno deve osare intralciare il passaggio. L’ideologo che è all’origine di questo mondo, l’artefice che ultimamente lo ha costruito e ne costituisce per così dire l’archetipo celeste, è quello che la Scrittura chiama «il principe di questo mondo» (Gv 12,31; 16,11 e 14,30).
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 60
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