«[…] Gesù, alzati gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Diceva cosi per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”.
Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?” . Rispose Gesù: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: “Questi è davvero il profeta che viene nel mondo!”. Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. (Gv6,5-15)
Tutto il capitolo sesto di san Giovanni ruota attorno a questa affermazione di Gesù: io sono il pane della vita. Incomincia con un miracolo: la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un miracolo che – nei Vangeli – riveste una dignità speciale, perché è l’unico raccontato da tutti e quattro. Questo capitolo lo possiamo e lo dobbiamo interpretare dunque come la spiegazione del significato del miracolo. I miracoli infatti non sono solo manifestazioni della potenza divina di Gesù, ma segni della sua identità profonda e del significato vero della sua azione nel mondo. Giovanni infatti li chiama “segni” e qui Gesù rimprovera le folle di non accoglierli come “segni” (v. 26) ma di fermarsi alloro effetto benefico più immediato, ma anche più superficiale. Gesù non è venuto in questo mondo solo per guarire i malati e dar da mangiare agli affamati… Neppure è venuto per risuscitare i morti. I morti risuscitati di nuovo a questa vita infatti muoiono poi ancora, i malati si ammalano ancora, e chi mangia avrà poi di nuovo fame. Gesu è venuto a rinnovare il mondo alla radice, a comunicare una vita che non finisce più e non è più soggetta ai limiti di questo mondo. Se tanti malati poi saranno curati, tanti affamati saranno nutriti e anche tanti miracoli saranno ancora fatti, sarà per effetto di questa vita nuova portata da Gesù, il cui dinamismo però trascende i confini di questo mondo. Lui è un “pane disceso dal cielo” (w. 32-33.41).
Ma che senso può avere parlare di “pane” a proposito di Gesù? C’è un senso più immediato e più facilmente comprensibile: un maestro, un profeta, un uomo pieno dello Spirito di Dio pronuncia parole che sono come un nutrimento. Gesù aveva già fatto riferimento a questa metafora della parola come cibo durante le tentazioni nel deserto: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Lo aveva tatto citando l’Antico Testamento: « Egli dunque ti ha umiliato, ti ha tatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3). Ascoltare l’insegnamento di un sapiente è come nutrirsi. Le sue parole ti danno conforto e ti fanno crescere, non sono come le chiacchiere 15 degli stolti o dei falsi sapienti di questo mondo che ti lasciano vuoto e spesso anche triste e depresso. Ma non solo le sue parole: lo stare con lui, il vederlo, l’imitarlo, il frequentarlo. Tutto ciò è abbastanza comprensibile e corrisponde all’esperienza dell’uomo e alle sue tradizioni millenarie.
Ma qui Gesù propone un salto di qualità. Un salto che non annulla i gradini precedenti (rimane vero che le parole vere nutrono e le parole di Dio sono vere di una verità irraggiungibile), ma li compie e li trascende. Qui Gesù si propone Lui stesso come cibo con un realismo che va ben oltre tutte le metafore: « In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita” (v. 53).
Che qui succeda qualcosa di “strano” e di “inaudito”, che qui ci si trovi di fronte ad una pretesa mai avanzata da nessuno, lo capiscono benissimo gli ascoltatori di Cafarnao: «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” […].
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” (w. 60.66).
Qui bisogna continuare a vedere il segno e ad approfondirlo: non più soltanto una metafora, ma qualcosa di più. Quello che noi cristiani (noi cattolici!) chiamiamo un “sacramento”: in questo caso il “Santo Sacramento”. Qui il segno, infatti, non veicola soltanto un effetto di grazia, ma si identifica con la realtà della Persona di Gesù, Verbo fatto carne. Vi si identifica nella sua realtà profonda (“sostanza” , “transustanziazione”), pur conservando le sue apparenze naturali di cibo e di bevanda. Nel canone della Messa o preghiera eucaristica diciamo: “mistero della fede!”. I misteri della fede sono tanti, ma qui – per così dire – fanno tutt’uno.
Credendo in questo si coglie come in sintesi tutto il resto. L’eucaristia è la fonte e il culmine della vita cristiana. Gesù è il pane vivo e vivificante, che non solo ci nutre, ma ci trasforma in lui e ci divinizza.
Il Cristianesimo non è solo una dottrina, ma una Persona.
IL TIMONE N. 86 – ANNO XI – Settembre/Ottobre 2009 – pag. 60