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11.12.2024

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Irlanda, chi resiste al declino della Chiesa
2 Maggio 2014

Irlanda, chi resiste al declino della Chiesa

In un Paese che ha registrato una secolarizzazione brutale, di fronte al fallimento di tanta pastorale spicca il successo di «Alive!», una rivista che ha rilanciato l’apologetica e il senso di una militanza cattolica

 

 

Nel 1990 in Irlanda c’erano 525 seminaristi che studiavano per diventare sacerdoti. L’anno scorso ce n’erano appena 70. Un crollo dell’85% in poco più di 20 anni. Basta questo dato per cogliere la portata della crisi o meglio del crollo di quella che è stata una delle Chiese dalle radici più robuste d’Europa. Un bestseller di qualche anno fa, Come gli irlandesi salvarono la civiltà di Thomas Cahill, ha ricordato al grande pubblico l’epopea degli inizi del cattolicesimo nell’Isola di Smeraldo. Un popolo che conservava intatta la sua dimensione pagana celtica, che non era stato nemmeno sfiorato dalla cultura latina, a differenza dei vicini britanni, accolse il cristianesimo in seguito allo sforzo missionario soprattutto di san Patrizio, a metà del V secolo, convertendosi in massa. Vide fiorire in un lasso di tempo brevissimo una civiltà monastica caratterizzata dalla radicalità della vita ascetica, dalla laboriosità e dall’amore per le arti, con scuole di amanuensi che si misero a copiare e miniare i manoscritti degli autori classici e dei Padri della Chiesa.

Impressionante fu poi lo slancio missionario: una serie di monaci, di cui il più celebre fu san Colombano, presero a viaggiare per le lande del defunto impero romano – la Britannia, le Gallie, le terre del germani, l’Italia – fondando monasteri che furono fari di vita cristiana e civilizzata nella nebulosa dell’Alto Medio Evo. Nel corso dei secoli cambiarono le circostanze ma non diminuì il fuoco della fede degli irlandesi, che ovunque emigrarono – Inghilterra, Stati Uniti, Australia – portarono un impulso formidabile alla crescita della Chiesa. Fino appunto all’inizio degli anni ’90, quando questa storia gloriosa ha registrato una drammatica battuta d’arresto, come un maratoneta colpito da un infarto. Gli anni di un boom economico mai visto prima, gli anni della cosiddetta “Tigre Celtica”, che hanno visto l’Irlanda entrare a pieno titolo fra i Paesi più dinamici dell’Unione Europea. Salvo perdere la sua anima, per usare un’espressione forte ma che rende l’idea. Lo scandalo degli abusi sessuali commessi da sacerdoti e religiosi, deflagrato dopo il 2000, ha contribuito a deprimere ulteriormente una Chiesa a brandelli ed esangue.

 

Domenicani controcorrente

In questo panorama non certo confortante, dove anche ordini religiosi storici e tipicamente irlandesi come i Fratelli Cristiani sono stati azzerati in quanto a vocazioni, e tra alcuni anni lo saranno anche in senso assoluto, c’è una realtà che in qualche modo ha risalito la china: quella dei domenicani. Se ne è accorto anche un osservatore insospettabile come l’International Herald Tribune, l’edizione internazionale di uno dei quotidiani più prestigiosi e laici del mondo, il New York Times. Nella primavera dello scorso anno, ha dedicato un servizio al recupero vincente da parte dell’Ordine dei Predicatori della propria identità tradizionale, incluso l’abito religioso diventato spesso nel post-Concilio, come per altri ordini nell’isola, un optional. Un processo lento, guidato da superiori che hanno mantenuto lucidità, che nel tempo ha dato i suoi frutti: se su 26 diocesi nel 2012 sono stati 12 i nuovi seminaristi, i domenicani hanno potuto accogliere nello stesso anno 5 nuovi novizi. Poca cosa si dirà, ma sono numeri che altri ordini si sognano. E soprattutto in una Chiesa che conta circa 4 milioni e 500mila fedeli, i domenicani mantengono una presenza di 175 religiosi, con una trentina di studenti di teologia che vanno verso l’ordinazione. Fra i frati in tunica bianca e cappa nera ce n’è uno in particolare che merita il titolo di “resistente” contro la secolarizzazione, lo scoramento, l’insignificanza di tanta pastorale. Si chiama Brian McKevitt, sta nel convento di Tallaght, a una manciata di chilometri da Dublino, ed è conosciuto in tutto il Paese come il fondatore e il direttore di una rivista speciale, un mensile gratuito e smilzo, di soli 16 pagine, che si chiama Alive!, ovvero «Vivo!» o «Vivi!».

 

Parlare di fede non in «ecclesialese»

Nel 1996, vedendo la frequenza alla Messa domenicale e ai sacramenti ridursi sempre di più, padre McKevitt pensa a una pubblicazione fuori dagli schemi, capace di parlare ai lontani con un taglio schietto e di risvegliare una sana militanza cristiana nei credenti assopiti. Inizia a distribuirla in poche copie a Tallaght e dintorni, porta a porta. La fattura è spartana, ma il riscontro è ottimo. Merito del linguaggio, lontano dall’“ecclesialese”, con i suoi termini per iniziati curiali, con l’attitudine a smussare gli spigoli, a evitare la prospettiva frontale. Una lingua che, dice padre McKevitt, deve essere comprensibile anche a un ragazzo di 12 anni. E merito del contenuto degli articoli, capaci di riproporre un cattolicesimo tradizionale, la dottrina dimenticata innanzitutto, e di guardare la realtà con un occhio critico, chiamando le cose con il proprio nome, senza timore di sembrare retrogradi solo perché non ci si vuole adeguare ai canoni della secolarizzazione e del politically correct dominante. Oggi, quasi 20 anni dopo, Alive! continua a essere gratuito e ne vengono distribuite 250mila copie ogni mese in tutta l’Irlanda. Questo, grazie all’aiuto di mille volontari, che le portano nelle case, nelle parrocchie, nei supermercati e in altri luoghi pubblici. La rivista viene realizzata a un costo di 25mila euro a numero, ripagato dalle donazioni e da un po’ di pubblicità, e lo staff resta minimale: il suo direttore e una segretaria part-time.

«Alive! potrebbe avere una circolazione ancora maggiore se più preti lo promuovessero la domenica», spiega il domenicano battagliero al telefono ripercorrendo la sua piccola grande avventura. Compresi gli ostacoli incontrati, che però non hanno mai superato i favori: «I miei superiori sono stati messi sotto pressione diverse volte, ma devo riconoscere che mi hanno sempre lasciato la totale libertà di pubblicare quello che volevo, salvo ovviamente assumerne la responsabilità in prima persona. Per il resto sì, siamo stati e veniamo ancora attaccati dai media – abbiamo una rubrica che fa da osservatorio su quello che viene trasmesso in particolare sui canali televisivi – o da esponenti politici per certe nostre posizioni». Una su tutte, quella che Alive!, molto critica nei confronti della UE, prese contro la ratifica del trattato di Nizza, nel referendum del 2001, a favore del quale si espresse invece la Conferenza episcopale. «D’altra parte, l’attenzione che ci viene data è un segno positivo. Qualche anno fa scrissi un articolo dal titolo un po’ duro, “Atheists are losers and no-hopers” (gli atei sono dei perdenti, non dei portatori di speranza, ndr.). Era un ragionamento su come gli atei, non avendo fede nel significato ultimo della propria vita, finiscano per sprecarla. Rimasi colpito dalla valanga di risposte. Molte erano in disaccordo con quello che avevo detto, ma capii anche che le mie parole avevano fatto riflettere molti».

 

Evangelizzazione dal basso

Molte sono state poi le consolazioni per i frutti spirituali attestati negli anni dai lettori. «Una volta, un parrocchiano mi raccontò che mandava la rivista a sua figlia che lavorava come infermiera a New York – continua padre McKevitt – lei la passò a una sua collega. Che pochi giorni dopo tornò e le disse: se è questo quello che pensano i cattolici voglio farmi cattolica anch’io». Il frutto principale resta comunque quello di «aver ridato a tanti il coraggio di difendere e di affermare la propria fede». Perché il fenomeno della secolarizzazione dell’Irlanda, ci tiene a sottolineare il battagliero figlio di san Domenico, viene spesso frainteso: «Lo si tende a spiegare con la parola dei figliol prodigo: un popolo che dopo aver vissuto per secoli sotto l’ombra della Chiesa ad un certo punto ha voluto assaporare il gusto della libertà e dell’emancipazione. In realtà, quello che è successo è in gran parte un fallimento della catechesi della Chiesa, nelle scuole, nelle parrocchie, nella predicazione. Si è sempre fatto affidamento sul contesto culturale, che è sempre stato naturaliter cristiano. La scomparsa repentina di questo ha mostrato la povertà del modo in cui la fede veniva trasmessa e spiegata. Per la nuova evangelizzazione, di cui Giovanni Paolo II iniziò a parlare più di 20 anni fa, solo adesso si inizia a fare qualcosa. E sono convinto che se ci fosse un’azione appunto di evangelizzazione adeguata, troverebbe ancora grandi risorse di fede in questo Paese».

 

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