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11.12.2024

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Islam, eppur si muove
31 Gennaio 2014

Islam, eppur si muove

 

 

Dietro ai sommovimenti in atto nel Nordafrica e in Medio Oriente, c’è una sfida radicale all’islam politico: dalla piazza e dalle università si alza la voce di chi chiede all’islam di cambiare, per aprirsi alla democrazia e al rispetto dei diritti umani

Quanto sta accadendo in questi mesi in Nordafrica e Medio Oriente è certamente un fatto epocale che ha la potenzialità di ridisegnare la mappa politica non solo di quella regione. Ma dietro ai fatti di cronaca e ai cambiamenti di regime in corso ci sono movimenti meno evidenti ma non per questo meno importanti. Anzi, in prospettiva sono proprio questi movimenti a essere più decisivi per il futuro. Il riferimento è soprattutto a quanto sta accadendo nell’islam perché, aldilà delle profonde diversità delle situazioni nei singoli paesi, si coglie un fermento che riguarda proprio la religione islamica costretta a confrontarsi con la modernità.
Come è noto, una caratteristica del mondo islamico è la mancanza di distinzione tra sfera religiosa e sfera politica, che si traduce ad esempio nella applicazione ferrea della legge coranica nell’ordinamento statale: in pratica, abbiamo di fronte paesi e movimenti che cercano di tenere sostanzialmente ferma – o riportare – la propria società al VII secolo. Questo può tenere finché la società è chiusa, finché è negato ogni contatto con l’esterno o, addirittura, usando le nuove tecnologie – vedi tv satellitari e siti internet – per inculcare su ampia scala una visione distorta del mondo non islamico.
Ma gli eventi di questi mesi ci fanno vedere che il desiderio di libertà e di giustizia che anima tante piazze sta provocando delle crepe anche in questo muro. Lo dimostrano sia alcune voci autorevoli del mondo islamico sia alcune posizioni espresse dalla piazza.
Ad esempio, sulla scia delle rivolte in Tunisia ed Egitto, alla fine di gennaio oltre 2200 studiosi, politici e attivisti arabi, provenienti da 20 paesi arabi, hanno pubblicato un appello urgente per la difesa e il consolidamento dei diritti umani e della democrazia nel mondo arabo. È stato chiamato «Appello di Casablanca», dal nome della città del Marocco dove nello scorso ottobre è stata organizzata una conferenza proprio per discutere del futuro dei paesi arabi. «L’Appello di Casablanca – ha detto Radwan Masmoudi, presidente del Center for the Study of Islam and Democracy (Csid) e organizzatore della Conferenza dell’ottobre scorso – è sostenuto da intellettuali e politici arabi di primo piano, di ogni convinzione politica, dall’ala sinistra e dei secolaristi fino agli islamici moderati e anche i Fratelli Musulmani, tutti d’accordo che la democrazia e i diritti umani sono oggi una “necessità assoluta” per il mondo arabo». «La rivoluzione tunisina – gli ha fatto eco Emad El-Din Shahin, docente di Religioni, Conflitti e Operazioni di pace all’Università di Notre Dame, tra gli estensori del documento – ha spazzato via diversi miti: il mito dell’eccezione mediorientale alla democrazia, il mito di poter ottenere riforme economiche senza una liberalizzazione politica, e il mito per cui il sostegno occidentale ai regimi autocratici della regione manterrà la stabilità e proteggerà gli interessi strategici occidentali ».
Un secondo fatto, potenzialmente più esplosivo, riguarda la pubblicazione in Egitto, il 24 gennaio, di un «Documento per il rinnovamento del discorso religioso», postato sul sito del settimanale Yawm al-Sâbi’. Dieci pagine, ventidue punti: un programma di riforma dell’islam che spazia dalla revisione del concetto di jihad (guerra santa) al ruolo della donna, dalla revisione dei testi religiosi (le parole attribuite a Maometto e i commentari coranici) fino alla separazione tra religione e politica. L’iniziativa è partita da un gruppo di persone legate al settimanale che hanno però ripreso e sistematizzato discorsi e scritti di 23 dotti islamici legati alla famosa Università Al Azhar del Cairo, il centro più importante per la formazione e la teologia islamica.
Tra i nomi dei dotti ci sono infatti personalità religiose di rilievo come Nasr Farid Wasel, ex gran Mufti dell’Egitto; l’imam Safwat Hegazi; il dottor Gamal al-Banna, fratello del fondatore dei Fratelli Musulmani; i professori Malakah Zirâr e Âminah Noseir; il celebre scrittore islamista Fahmi Huweidi; il dottor Mabruk Atiyyah; un gran numero di predicatori (du‘ât), incaricati della Propaganda islamica quali Khalid al-Gindi, Muhammad Hedâyah, Mustafa Husni.
Il documento è stato immediatamente rilanciato su migliaia di siti, blog e forum provocando accese discussioni. Le prime reazioni dei frequentatori dei siti sono state in maggioranza ostili, timorose di una messa in discussione dei capisaldi della società araba e islamica. Ma non ci si poteva certo aspettare il contrario. Fatto sta però che qualcosa si sta muovendo anche fra coloro che possono avere una maggiore influenza sulla popolazione e sulla cultura islamica. Non sono infatti mancati finora intellettuali islamici, soprattutto nella regione del Maghreb, che hanno cercato di conciliare l’islam con la modernità – che significa soprattutto il valore della persona e i diritti umani -, ma il loro impatto è irrilevante, perché a contare nel mondo islamico sono fondamentalmente le autorità religiose. È per questo che la dichiarazione maturata nell’ambiente dell’università Al Azhar assume una grande importanza.
Questo non significa che ci si deve aspettare chissà quali cambiamenti in breve tempo, perché le resistenze – religiose, culturali e politiche – saranno enormi, come peraltro dimostrano le prime reazioni al documento dei dotti islamici Ma è comunque l’inizio di una rivoluzione culturale potenzialmente decisiva per il futuro. Anche perché è accompagnata da moti di piazza che, a partire dall’Egitto, dimostrano come ci sia ormai un’ampia fascia di popolazione che vuole la democrazia e la libertà, pur senza mettere in discussione l’islam. È impossibile prevedere al momento quale sarà l’esito politico di queste rivolte, ma è un fatto che è ormai molto diffusa una richiesta di democrazia con cui dovranno fare i conti anche i partiti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani. E ciò che accade nell’Egitto sunnita è confermato anche dall’Iran sciita, dove sull’onda di quanto accade in altri paesi del Medio Oriente sono riprese le manifestazioni studentesche che già da due anni si ripetono in successive ondate. Anche qui gli oppositori al regime non mettono in discussione l’esistenza della repubblica islamica, ma chiedono democrazia e fine dell’isolamento del paese. Il messaggio è chiaro: il terrore non è il modo migliore per salvare l’islam, molto meglio accettare il buono della modernità. Il problema è che ayatollah e sceicchi sono ancora convinti del contrario.

IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 18 – 19

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