Cardinale bavarese, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e stretto collaboratore di Giovanni Paolo II. La sua missione? Difendere la fede dei semplici dal pericolo di dottrine non cattoliche.
Attraversa tutti i giorni Piazza San Pietro, con un basco nero sulla testa e una vecchia borsa di pelle sottobraccio. Lo hanno dipinto come un cerbero, un arcigno inquisitore, l’alfiere del conservatorismo, il carabiniere della Chiesa. In realtà Joseph Ratzinger, 75 anni, il porporato che da più tempo collabora al fianco di Giovanni Paolo Il come capo di un dicastero della Curia romana, ha un po’ il DNA del poliziotto: il padre, che portava il suo stesso nome, è stato a lungo gendarme del paese e si è scontrato con i nazisti all’epoca in cui iniziavano a prendere piede. Conoscendolo un po’ da vicino, ci si accorge quanto falsa sia l’immagine stereotipata che certa pubblicistica ha affibbiato al cardinale bava rese. Ratzinger è un prelato distinto, dallo stile british, gentile, che sa ascoltare, non prevarica, scrupolosissimo. Con una grande passione per la musica, quella sacra in particolare, condivisa con il fratello Georg, anch’egli sacerdote, già direttore del Coro di Ratisbona.
Joseph Ratzinger è, dal novembre 1982, il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cioè il custode dell’ortodossia cattolica. È l’uomo che, con la sua discreta e attenta presenza, ha vegliato su tutto il pontificato di Papa Wojtyla, permettendo al Pontefice globe trotter di dedicarsi interamente alla sua missione di annunciatore del Vangelo. Nato il16 aprile 1927 a Marktl am Inn, nella diocesi bava rese di Passau, Ratzinger, che ha fatto il servizio militare nell’esercito tedesco negli ultimi due anni di guerra, è stato ordinato prete il29 giugno 1951 dal cardinale di Monaco e Frisinga Michael von Faulhaber. Quel giorno accade qualcosa: “Non si deve essere superstiziosi – scriverà Ratzinger – ma nel momento in cui l’anziano arcivescovo impose le mani su di me, un uccellino – forse un’allodola si levò dall’altare maggiore della cattedrale e intonò un piccolo canto gioioso; per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta”. Teologo di punta durante il Concilio Vaticano Il, appartenente all’ala considerata progressista, ma già allora su posizioni ben diverse da quelle di altri teologi “di grido”, Ratzinger, di fronte alle critiche di chi lo accuserà di essersi “pentito” delle aperture professate all’epoca, risponderà che non è stato lui a cambiare, sono stati gli altri. Comincia già allora, durante il Vaticano Il, una lenta e progressiva presa di distanze del futuro Prefetto dalle correnti teologiche che andavano per la maggiore. “Ogni volta che tornavo da Roma, trovavo nella Chiesa e trai teologi uno stato d’animo sempre più agitato. Sempre più cresceva l’impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere soggetto di revisione”. Nel 1977, Paolo VI, che lo stima moltissimo, lo nomina arcivescovo di Monaco e Frisinga. Un mese dopo lo eleva alla porpora. Così Ratzinger può partecipare ai due conclavi del 1978. Nel secondo, quello dal quale uscirà eletto il cardinale di Cracovia Karol Wojtyla, avrà un ruolo significativo nell’appoggiare la candidatura del porporato polacco, con il quale aveva avuto modo di parlare del futuro della Chiesa. Subito dopo l’elezione, Giovanni Paolo Il cerca di convincere Ratzinger a lasciare Monaco per stabilirsi a Roma. Lui resiste per tre anni e alla fine accetta di diventare il successore del cardinale croato Franjo Seper. Qual è il ruolo del custode dell’ortodossia? “Il magistero ecclesiale – spiega – protegge la fede dei semplici; di coloro che non scrivono libri, che non parlano in televisione e non possono scrivere editoriali nei giornali: questo è il suo compito democratico. Esso deve dare voce a quelli che non hanno voce”. “Ciascuno deve avere il diritto di formarsi e di esprimere liberamente la propria opinione. La Chiesa con il Concilio Vaticano” si è dichiarata decisamente a favore di ciò e lo è ancora oggi. Ma ciò non significa che ogni opinione esterna debba essere riconosciuta come cattolica. Ciascuno deve potersi esprimere come vuole e come può davanti alla propria coscienza. La Chiesa deve poter dire ai suoi fedeli quali opinioni corrispondono. alla loro fede e quali no. Questo è un suo diritto e un suo dovere, affinché il sì rimanga sì e il no no, e si preservi quella chiarezza che essa deve ai suoi fedeli e al mondo”.
Sono noti i tanti autorevoli interventi della Congregazione guidata da Ratzinger in difesa della fede cattolica. Così come sono note le sue ripetute prese di posizione contro le “Messe degenerate in show”, interventi per nulla nostalgici, ma realisticamente preoccupati per la perdita del senso del sacro nella liturgia. Forse sono meno noti, e corrispondono meno al cliché al quale siamo abituati, altri episodi di questi ultimi vent’anni. Come ad esempio il bellissimo intervento pronunciato al Meeting di Rimini del 1990, quando senza peli sulla lingua, con la libertà e l’autorevolezza che lo contraddistinguono, Ratzinger denuncia la riduzione della fede a morale, il rischio del pelagianesimo e non risparmia critiche all’eccesso di burocrazia nella Chiesa: “È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali… Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo e semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza mai aver fatto parte di sinodi… e tuttavia egli è un vero cristiano”. Il vigile e cortesissimo “gendarme” della fede, non finisce mai di stupire. Bellissimo è il suo elogio del compromesso politico, una lezione magistrale tenuta su invito del senatore a vita Giulio Andreotti: “La verità è che la morale – spiega – consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale della politica”. Ancora, nel gennaio 2002, quando da più parti anche nel mondo cattolico in tanti storceranno il naso di fronte al gesto compiuto da Giovanni Paolo” ad Assisi nel tentativo di togliere fondamento teologico all’uso della violenza in nome di Dio e al fondamentalismo, Ratzinger sarà di fianco al vecchio Papa che lo volle vicino a sé in Vaticano e pubblicherà su 30 Giorni un articolo proponendo di seguire l’atteggiamento del Poverello: “Se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di San Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: è proprio allora che la troviamo”.
BIBLIOGRAFIA
TIMONE N. 20 – ANNO IV – Luglio/Agosto 2002 – pag. 48 – 49
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