Tutti gli uomini, in qualunque angolo del pianeta, sanno chi è: moltissimi lo hanno incontrato di persona, emozionandosi nell’incontro sino alle lacrime; per altrettanti, le sue parole sono state causa di trasformazione profonda della vita; gli altri, anche i più indifferenti, lo hanno visto girare per il mondo e ancora lo vedono, vecchio e ricurvo dagli anni. È impossibile pensare alla storia del secondo Novecento senza la sua presenza di pastore; anche a cavallo del millennio la sua missione prosegue nell’epoca della globalizzazione traendo una forza incomprensibile se non si pensa allo Spirito Santo: si sarà ormai capito che parliamo di papa Giovanni Paolo II.
Ciò che è detto sopra vale innanzitutto se guardiamo alla sua vita nelle vesti di Santo Padre, ma vale anche se la osserviamo in filigrana, cercando di scoprire chi sia Karol Wojtyla poeta, sacerdote e successore di Pietro. È singolare che in spagnolo, la lingua più parlata nel mondo, il nome del Pontefice (“Juan Pablo segundo”) sia sempre cantato assieme a “te quiere todo el mundo”; perché in quella facile e gioiosa rima baciata si cela un’autentica sapienza, che è sempre popolare e facile alla memoria, e che lascia intravedere uno dei destini riservati al primo Vicario di Cristo di origine slava nella storia della Chiesa: di esser ricordato in futuro anche come un grande poeta.
Ha scritto versi, liriche, drammi, meditazioni: ma non solo. Se intendiamo “poeta”, secondo l’etimo greco del termine, come “colui che fa, che opera”, davvero la biografia di Karol Wojtyla diventa la storia di un artista che agisce alla luce di Dio.
Leggendo la biografia scritta da George Weigel, Testimone della speranza (Mondadori, 1999), è avvincente inoltrarsi nelle milleduecento pagine del grosso volume, tra i fatti dell’esistenza piena di un uomo pienamente dedito al servizio del Signore; leggiamo nel maturare del suo volto il crescere della nostra fede; contiamo il passare degli anni della nostra vita con l’invecchiare del corpo consacrato del Papa, il quale si offre a tutti come l’uomo che va verso la malattia e la morte senza disperazione, perché Gesù Cristo gli è vicino sempre.
Trittico romano
Il tempo della vita passa, gli anni nostri e del suo pontificato si avvicendano: tra breve si compirà il venticinquennale dell’elezione al soglio di Pietro; molti ricordano bene le immagini televisive di quella sera d’ottobre in cui, dopo il Conclave e la fumata bianca, sul balcone prospiciente piazza San Pietro apparve la figura vigorosa, dal viso serio e sorridente insieme, di colui che avrebbe raccolto l’eredità dei predecessori sin nel nome: Giovanni Paolo. Un “non italiano” dopo 455 anni. È passato un quarto di secolo.
Quel 1978 fu annus mirabilis, l’anno dei tre papi. Alle ore 11 del 3 ottobre, il primate di Polonia cardinal Wyszynski e l’arcivescovo di Cracovia Wojtyla entrarono nella, basilica vaticana e si raccolsero in preghiera davanti al feretro di Giovanni Paolo I; nelle ore seguenti, Wojtyla compose la sua ultima poesia: s’intitolava Stanislao, aveva per tema il martirio come sorgente dell’unità del popolo polacco e come modello universale della vocazione cristiana, ed era come il saldo “del mio debito a Cracovia”.
Dopo tanto tempo, dopo tanti anni spesi a servire l’annuncio del Risorto ai quattro angoli della terra, Karol Wojtyla è tornato alla poesia: o meglio, l’ispirazione poetica è tornata a lui, in veste di Musa suggeritrice di nuovi, limpidi, profondi versi lirici. Nella bella edizione della recente raccolta di poesie del Papa, Trittico romano (Libreria Editrice Vaticana, 2003), il curatore si premura di inserire qualche riproduzione degli originali dei componimenti del Pontefice: e quale emozione ci prende nel vedere la sua grafia, nel materno idioma polacco, verga re le linee di meditazioni altissime sulla vita e sulla morte; e in alto, in ciascuna pagina, leggere come su qualunque pagina da lui scritta, il motto di dedizione alla Madonna, totus tuus ego sum: io sono del tutto tuo.
La prima lirica s’intitola “Torrente” ed è una vivace riflessione sulla potenza generatrice dello Spirito Santo, che si libra sulle acque e si manifesta nello stupore, nella fresca bellezza di un bosco di montagna, dentro cui scorrono impetuosi ruscelli. Poi ecco le “Meditazioni sulla Genesi”: dalla soglia della Cappella Sistina, il Santo Padre compone versi di lode, sulla scia di san Paolo allorché disse ai greci che “in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”. Poi evoca Michelangelo per ringraziarlo di aver affrescato quelle immagini che ora tutto il mondo ammira, simboli del Verbo del Padre, in attesa che il mistero della nostra creazione a Sua immagine e somiglianza sia rivelata nell’incontro finale.
Il dolore e le atrocità della storia sembrerebbero aver sfigurato l’originaria sostanza dell’uomo, dice la voce poetica al termine di un secolo terribile come il XX. Eppure l’uomo, Adamo, l’io di ognuno constata:
“perché proprio di quell’unico giorno si è detto:
Dio vide che ciò che aveva fatto era buono assai?
Perché allora sembra che la storia contraddica tutto questo?” (p. 23)
e invece di concludere nella disperazione della mancanza di senso, come fa la filosofia contemporanea, il poeta che è nel Papa si lascia rapire dalla bellezza dei dipinti, sopra i quali svetta l’immagine decisiva: Dio Padre che sfiora col dito la mano del primo uomo. Oppure, la coppia dei progenitori, i quali, uniti nel “presacramento” della generazione, procreano: “sanno che hanno varcato la soglia della più grande responsabilità” (p. 27).
E nell’epilogo, la visione del Giudizio Universale suscita al Pontefice una confessione altissima:
“e proprio qui,
ai piedi di questa stupenda
policromia sistina,
si riuniscono i cardinali – una
comunità responsabile per
il lascito delle chiavi del Regno.
(…)
Era così nell’ agosto e poi
nell’ ottobre,
del memorabile anno dei due
conclavi, e così sarà ancora,
quando se ne presenterà
l’esigenza
dopo la mia morte.
All’uopo, bisogna che a loro
parli la visione di Michelangelo.
“Con-clave”: una compartecipata premura
del lascito delle chiavi,
delle chiavi del Regno” (p. 31).
“È questa l’immensa responsabilità” annota il cardinal Ratzinger nella prefazione al testo, “si ricordano così le parole di Gesù, il guai rivolto ai dottori della legge: avete tolto le chiavi della scienza (Lc 11, 52)” .
Con questa raccolta Giovanni Paolo II torna alla creazione poetica dopo aver suscitato, sostenuto dalla tradizione apostolica e dalla grazia del suo stato, una nuova stagione del Magistero, incardinata dalla prima enciclica Redemptor hominis (’79) alla Centesimus annus, dalla Veritatis splendor alla Fides et ratio, attraverso l’edizione del Catechismo della Chiesa Cattolica (’92).
E se il successore di Pietro continua a creare, a darsi con generosità ai pellegrini che lo seguono o nelle Giornate Mondiali della Gioventù, il poeta che è anche Papa prosegue, indica alle anime di tutti un itinerario nelle luce e nelle ombre dei tempi; fedele al suo primo annuncio: Non abbiate paura.
IL TIMONE N. 26 – ANNO V – Luglio/Agosto 2003 – pag. 46 – 47