L’amore e la vita nel tempo del dolore
La sofferta esperienza della figlia Caterina ha fatto emergere esemplari storie di fede e di eroismo quotidiano, ora raccolte nel libro “Lettera a mia figlia”. Un atto di speranza contro la deriva nichilista della nostra società
«Oggi che sei tornata, oggi che sei stata restituita, su ogni alba trovo scritto il tuo nome. Per me ogni sole a mezzogiorno brilla con i tuoi occhi, ogni brezza mi ricorda il tuo pianto, ogni notte fa riecheggiare il tuo canto e il tuo sorriso illumina e cura tutte le mie ferite». Con parole commoventi e molto poetiche, nel suo nuovo libro Lettera a mia figlia. Sull’amore e la vita nel tempo del dolore (Rizzoli, € 16,50), Antonio Socci si rivolge alla figlia Caterina per esprimerle tutto il suo affetto di padre e il desiderio che guarisca completamente. Più che il seguito di Caterina, pubblicato tre anni fa (sempre da Rizzoli) e che raccontava i primi, drammatici mesi dopo quel 12 settembre 2009 in cui la ragazza era entrata in coma dopo un improvviso arresto cardiaco, queste pagine del giornalista e scrittore senese ci fanno entrare in un mondo di grazie e di testimonianze: sono i meravigliosi frutti, inspiegabili umanamente, suscitati dalle sofferenze di Caterina e della sua famiglia. Storie di eroismo e di fede che emergono da vite normali. Nello stesso tempo, il libro di Socci (già in classifica tra i più venduti) è anche un giudizio netto sulla deriva nichilista che ci sta infettando e che ci porta lontano da Cristo, ma anche un atto di speranza «perché un mondo nuovo sta iniziando silenziosamente». E magari non ce ne accorgiamo.
Dove sono questi semi di speranza che tu vedi?
«Ad esempio nei giovani. Non dimentichiamoci dei due milioni e mezzo di ragazzi che hanno gioiosamente invaso nel 2000 la spianata di Tor Vergata, a Roma, in occasione dell’Anno Santo. Accolti dal grande abbraccio del beato Wojtyla, e misconosciuti dai mass media, che tentarono meschinamente di ridimensionare quel grandioso evento con cronache mistificatorie e notizie inventate, oggi quelli che allora erano adolescenti costituiscono il nerbo di una nuova generazione di credenti, radicati in modo maturo nell’esperienza cristiana, apostoli nel mondo del Salvatore. Una cara amica di Caterina è entrata da poco in clausura, ma sono tanti gli esempi di fede sincera, di abbandono al Padre, che racconto. Vicende esemplari che non conoscevo, che nessuno conosceva, che i protagonisti hanno deciso di rendere pubbliche scrivendomi. La storia dolorosa, drammatica ma splendida di Enrico e Chiara e delle loro creature, è solo una delle tante, forse la più bella. Ma la vita dei cristiani è ricca di testimonianze simili. Per lo scrittore latino Tertulliano “i cristiani chiedono di non essere condannati prima di essere conosciuti”… Ecco, io ho voluto farli conoscere».
Ami citare una frase di san Giuseppe Moscati, «Dio non abbandona nessuno». Che cosa significa?
«Il Signore ci sta accanto ed è la “forza” che ci sorregge quanto più ciascuno di noi si sente “solo, trascurato, vilipeso, incompreso”, prossimo “a soccombere sotto il peso di una grave ingiustizia”: queste sono le parole del medico santo napoletano in una lettera del 1921. Ed è una riflessione di grande attualità, valida ancor oggi, a quasi un secolo di distanza, preziosa per tutti noi e che ci interpella. Che Dio ci sia vicino e non ci abbandoni mai è nella natura del cristianesimo e della fede cristiana, sintetizza la drammaticità del rapporto tra Dio e il suo popolo. Come ha ben sottolineato Benedetto XVI, nell’udienza generale del 14 novembre 2012 citando Sant’Agostino, “non siamo noi a possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci possiede”. Dobbiamo perciò avere un atteggiamento di povertà, di disponibilità, di apertura».
Come facciamo ad accorgerci che Dio ci è vicino, che opera nella nostra vita?
«Tre sono i modi attraverso cui il Signore irrompe nelle nostre giornate: i sacramenti, le circostanze quotidiane – anche dolorose – in cui ci immette, e l’abbraccio fisico, carnale, della comunità cristiana. L’esperienza concreta della comunione con i nostri fratelli è essenziale, è la condizione per una vita autentica. Cristo dimora in noi e affascina i cuori innanzitutto attraverso l’incontro con chi sta già facendo questa esperienza. Il beato cardinale John Henry Newman, vissuto nel XIX secolo, in un suo sermone osservava che anche se “il mondo sembra proseguire per il suo corso ordinario… tuttavia Gesù con il suo Spirito è presente, è con noi”».
In una società sempre più lontana da Dio, dove l’esperienza cristiana spesso si riduce a impegno sociale, come recuperare la coscienza della Sua presenza liberatrice?
«Con la preghiera. Dobbiamo essere mendicanti di Dio. L’invito di Giovanni Paolo II (“Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!”) è più che mai attuale. Aggiornato da papa Francesco, quando dice che Dio è misericordia, ci perdona e ci accoglie sempre, a condizione di continuare a chiedere di essere perdonati. La libertà cioè va messa in gioco. Senza preoccuparci del nostro limite, scandalizzandoci del peccato. Sant’Ambrogio diceva che “il peccato ci rende umili”, e a Giuliana di Norwich (vissuta a cavallo tra XIV e XV secolo), una delle più grandi mistiche della storia, Gesù apparendo in visione assicurava: “Vedrai, tutto finirà bene!”. Infatti ci è promessa la vita eterna. Chiara – di cui parlo nel libro – accetta la malattia inesorabile che l’ha colpita con queste parole, che dovremmo meditare ogni giorno: “Siamo nati e non moriremo mai più!”. Ogni domenica a messa recitiamo il Credo: per me non è altro che una grande preghiera; il riconoscimento di una dipendenza originaria».
Oggi si stanno diffondendo forme di devozione particolari: a Padre Pio, alla Madonna di Medjugorje…. Non c’è il pericolo del sensazionalismo, della ricerca del miracolo o della guarigione a tutti i costi?
«Questo rischio c’è, ma è da correre. Se il Signore ha pazienza con noi (concetto espresso da papa Bergoglio nella domenica della Divina Misericordia), anche a noi è chiesto di avere pazienza con gli altri. Tanti ritrovano la fede in quel paesino dell’Erzegovina o a San Giovanni Rotondo. Io personalmente ho una simpatia assoluta per la Regina della Pace e per il santo cappuccino con le stimmate, ma queste esperienze hanno bisogno di crescere, sono solo un’alba. Il popolo dei devoti di Medjugorje e di Padre Pio va accompagnato con una consapevolezza culturale e con l’indicazione di seguire il Magistero della Chiesa. In questo senso Radio Maria fa un ottimo lavoro di educazione».
Sei affascinato dalla figura e dal piglio di Caterina da Siena, la santa di cui tua figlia porta il nome. Ma dove sono oggi i santi?
«Ci sono. Siamo circondati, anche se magari non ce ne accorgiamo subito. Io racconto alcune delle loro storie; storie di persone normali che nelle mani di Dio diventano capolavori: un “eroismo nascosto”, per usare le parole del cardinal Bagnasco. Caterina Benincasa, con il suo gesto di riportare a Roma i Papi da Avignone, ha cambiato il corso della storia. Ma anche il mio amico Andrea Aziani, di cui sta per cominciare il processo di beatificazione e che è all’origine della mia esperienza cristiana, a suo modo ha cambiato la storia dell’America Latina, dei tanti che lo hanno incontrato nella megalopoli di Lima, in Perù, dove ha vissuto per un ventennio testimoniando Cristo a tutti».
Perché questo Papa sta facendo breccia nel cuore di molti, anche lontani dalla Chiesa?
«Nell’epoca di crisi e di incertezza profonda in cui viviamo, c’è una tale mancanza di punti di riferimento certi e autorevoli che l’irrompere di un papa come Francesco, questa figura così paterna e accogliente, ha suscitato subito un entusiasmo inaspettato e generalizzato. Come se in una notte buia fosse apparsa all’improvviso una luce, come se tanti non aspettassero altro: qualcuno che sapesse innanzitutto accoglierli e perdonarli».
Ricorda
«Carissima Caterina, c’è sempre un immenso struggimento in ciò che un padre vorrebbe dire a una figlia e ancora di più nel nostro caso perché quello che ci è accaduto e che viviamo ha ingigantito tutti i sentimenti e ora non riescono più a stare dentro le parole. E nemmeno dentro ai silenzi».
(Antonio Socci, Lettera a mia figlia. Sull’amore e la vita nel tempo del dolore, Rizzoli, 2013, IV di Copertina).
IL TIMONE N. 123 – ANNO XV – Maggio 2013 – pag. 16 – 17
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl