“Convertirsi” significa cambiare mentalità, il modo con cui si guarda e si giudica la vita. Non “in astratto”, ma “in concreto”. Nell’Antico Testamento però la conversione è un “ritorno”. L’evento dell’esilio è così determinante e significativo che la conversione è concepita soprattutto come un ritorno. Un ritorno nella Terra promessa che è – insieme – un ritorno a Dio e alla sua legge.
Questa parabola è in sintonia – non potrebbe essere diversamente – con questo modo di vedere le cose. Un figlio si allontana dalla casa del padre. Vuole “vivere la sua vita”, progettare la propria esistenza in totale autonomia, senza doverne rispondere a nessuno. Essere “conoscitore del bene e del male” cioè far sì che la sua coscienza non sia più, come realmente è, l’ambasciatrice di un’autorità superiore, la portavoce di un Qualcuno che parla con autorità incontestata e incontestabile. Lui vuol fare della propria coscienza la legislatrice suprema, illudendosi di trovare libertà e felicità. È il peccato di sempre. Fu il peccato originale ed è il peccato in tutte le sue forme, perché quello fu il modello di ogni peccato. “Originale” infatti vuol dire “primo”, ma anche “tipico”. Così come questa parabola è il modello di ogni conversione.
Il giovane vuole la sua eredità per farne quello che vuole, dipendendo solo da sé stesso, con un giudizio che non ha più nessun punto di riferimento “oggettivo”. Anche il peccatore vuol disporre delle sue facoltà, di se stesso e della propria vita, senza doverne rispondere a nessuno. Eppure sono anch’esse “eredità”, cioè beni ricevuti e non frutto di una propria libera ed autonoma ricerca. Chi è in grado di ricordarsi il momento in cui – liberamente ed autonomamente – ha deciso di nascere?
Preso dell’euforia della libertà totale ed assoluta (senza riflettere che anche la libertà stessa è un dono, è “eredità”) sperpera ben presto il suo patrimonio. Usando male la propria libertà, cioè senza rispettare la “grammatica” della creazione e quindi la grammatica della libertà stessa, la perde e si ritrova ad essere sfruttato e umiliato. La libertà senza riferimenti, cioè vuota, lo conduce al vuoto di ogni soddisfazione, anche delle più elementari, alla disperazione e alla solitudine. Quando infatti il linguaggio si fa radicalmente “sgrammaticato” diventa suono senza senso e compromette la possibilità di ogni comunicazione umana.
Qui però succede qualcosa di decisivo: «rientrò in sé stesso». Nella sua interiorità incomincia ad ascoltare la voce della coscienza, non più contraffatta dall’illusione di far tut-to da solo, ed essa gli parla con autorità, suggerendogli dapprima pensieri di semplice buon senso: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!». Il buon senso – cioè la ragione nel suo fondamento semplice e innato – innesca un processo di ritorno. Il padre lo aspettava. Quando lo vede gli va incontro. Se la ragione muove verso Dio, non può incontrarlo se Dio non muove verso di lui con la sua grazia. Il giovane in fondo non cercava altro che ritrovare un posto da subordinato nella casa di suo padre, altro non osava sperare, ma il padre lo sorprende e lo restituisce in pieno alla sua dignità. Lo riveste e lo pone di nuovo come partecipe della sua stessa autorità di proprietario e capo famiglia, ponendogli l’anello al dito. Il fratello maggiore reagisce sdegnosamente davanti alla festa che il padre ordina in onore del figlio ritrovato: lui lo aveva sempre servito senza mai lasciarlo e non aveva ricevuto in tanti anni neppure «un capretto» per far festa con gli amici. Lo aveva servito, ma non lo aveva amato perché ora gli rinfaccia la mancata ricompensa (l’amore non cerca “ricompense”) e chi non ama non capisce l’amore. Lo incomincia a capire invece il peccatore tornato a casa e ne rimane sbalordito perché va al di là di quello che lui poteva sperare.
IL TIMONE – N.61 ANNO IX – Marzo 2007 pag. 60
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