Si è già scritto molto sul modernismo teologico che riduce gli episodi evangelici a mito, o de-storicizza i miracoli, tra cui perfino la resurrezione stessa di Gesù. In questo tipo di lettura, i racconti della natività o dell’ascensione o delle apparizioni del Risorto si riducono a narrazioni simboliche per suscitare la fede, a generi letterari da interpretare soggettivamente.
Da un’attenta analisi di quei racconti emergono tuttavia particolari concreti che dovrebbero indurre maggior cautela nel tuffarsi acriticamente in certe forme di esegesi che non sono nemmeno più moderniste, bensì materialiste. Gli evangelisti sapevano assai bene il fatto loro, e quando scrivono non intendono compiere voli pindarici o astrazioni letterarie. Luca, per esempio, mostra assai bene il suo approccio quando scrive: «Ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi, e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,3-4). Ed è proprio questa “solidità”, questa “accuratezza”, che oggi viene ignorata da certi autori di teologia. In realtà non da oggi, ma poiché non è stato messo un freno adeguato, questi autori hanno pubblicato libri, questi libri sono diventati manuali adottati nella formazione di studenti e seminaristi, questi studenti sono diventati a loro volta docenti e predicatori, talvolta anche scrittori, e hanno esteso la diffusione di queste idee. Così l’interpretazione riduttivistica dei miracoli o di importanti episodi evangelici è dilagata, fino a rompere completamente gli argini della Tradizione e del Magistero.
In realtà, si tratta di movimenti ereticali che però non vengono riconosciuti con questo nome in quanto, spesso, si opta per il quieto vivere. Non c’è qui lo spazio per opporci alla sovrabbondanza di tali errori, sebbene in passato lo abbiamo fatto almeno per la narrazione della Resurrezione (il Timone n.1) e quella dell’Ascensione (il Timone n. 2). Possiamo solo esternare il nostro rammarico per tutte quelle omelie in cui i vangeli sono ormai ridotti a “favoletta”, e conditi sempre più con divertiti «non penserete sia successo davvero così», «non dobbiamo mica credere che sia avvenuto come qua è narrato». E così gli apostoli rimasero col naso all’insù non per guardare l’ascensione ma le mosche, o mangiarono a tavola non col Risorto ma con un genere letterario, in quanto «l’unico segno della resurrezione è il sepolcro vuoto».
Si tratta di una teologia che non ha fatto esperienza di conversione, che reagisce davanti al miracolo gridando: «È un fantasma!» (Mt 14,26). Una teologia che si reputa saccente, ma che non riesce a trasformare i cuori. Perché se quello che hai davanti è un fantasma, nemmeno tu riesci ad andargli incontro camminando come Pietro sulle acque (Mt 14,28- 29). Ma, travolto dal dubbio, puoi solo sprofondare come chi ha «poca fede» (Mt 14,30). La paura di apparire ingenui conduce al riduzionismo dell’interpretazione del fatto reale, perché si ritiene che limitandosi al verosimile si acquisti più credito presso le platee. Ma gli animi non si fanno trascinare dal buon senso o dall’eleganza delle citazioni, bensì dalla verità. E se è vero che chi sta seduto sulla panca durante tali prediche non può che tacere, è anche vero che alla messa successiva si reca presso altra parrocchia. Nella voragine delle crescenti demolizioni stanno ormai precipitando quasi tutti i miracoli, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci «che va letta come semplice racconto simbolico» o il miracolo delle nozze di Cana «che non va letto ingenuamente come appare», e così via. Beninteso: che gli episodi abbiano una chiave di lettura più profonda dell’avvenimento esteriore, questo è indubbio. Ma è appunto l’avvenimento che contiene il simbolo, non il genere letterario del testo. Non è l’evangelista ad inventare quel brano per dare un certo messaggio. È Gesù che compie determinati gesti per dare quel messaggio, mentre l’evangelista non fa altro che riportarlo; e «con accuratezza».
Realtà e simbolo in essa contenuto non si escludono a vicenda, bensì sono compresenti negli avvenimenti della vita di Gesù, e lo sono prima che il testo li narri. L’evangelista tutt’al più ne evidenzia il significato simbolico, ma non lo aggiunge dall’esterno con artifizio letterario. Non ha bisogno d’inventare nulla per convincere; anzi, semmai omette di narrare, perché «vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25).
IL TIMONE N. 112 – ANNO XIV – Aprile 2012 – pag. 61
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