La prima enciclica di papa Francesco avverte: la Fede può essere perduta se non è alimentata. Preghiera e Sacramenti, ma anche apologetica e catechesi
Quando i lettori del Timone leggeranno questo articolo saranno passati circa tre mesi dalla pubblicazione della prima enciclica di papa Francesco, Lumen fidei. Quasi certamente non se ne parlerà più da tempo, come sempre accade per i documenti del Magistero che non si prestano a polemiche eclatanti, a titoli cubitali dei giornali, a risse mediatiche più adatte a dispute da bar che a riflessioni pacate.
L’enciclica tratta della Fede, la prima virtù teologale del cristiano, e della sua capacità di illuminare tutta la vita proprio perché luce. Nasce dalla preoccupazione che oggi la fede non può più essere data per scontata, come papa Benedetto XVI disse in Portogallo durante il viaggio apostolico del 2010. Una preoccupazione costantemente ripresa dal pontificato di Francesco, che continua a invitarci a “uscire”, ad andare verso le “periferie esistenziali” dove gli uomini soffrono per la mancanza del pane ma anche dove soffrono per la mancanza della luce che proviene da Cristo.
Come si capisce già dalla introduzione e come verrà più estesamente ripreso all’interno del testo, il documento si preoccupa di raccontare la storia della fede, dal padre Abramo all’attuale Anno della Fede, di collegarla con le quattro parti del Catechismo, sia quello Tridentino sia quello vigente oggi, il Catechismo della Chiesa Cattolica, cioè collegando la Professione di fede con i Sacramenti, con il Decalogo e con la preghiera, appunto le quattro componenti del Catechismo.
Un dono da coltivare
Ma non ho intenzione di presentarvi il documento, tre mesi dopo la sua pubblicazione. La mia intenzione è un’altra e consiste in due aspetti.
Il primo è un appello a non lasciare cadere nell’oblio un documento del Magistero così importante.
La Fede è un dono, come ci insegna il catechismo, ma è un dono che se non viene coltivato può anche andare perduto. Dobbiamo perciò essere consapevoli che possiamo perdere la Fede. I nostri genitori e le generazioni a loro precedenti probabilmente correvano meno questo rischio, perché vivevano in una società ancora un poco cristiana, soprattutto se abitavano in un paese piccolo, per esempio in una regione cosiddetta bianca, in Brianza piuttosto che in altre province del Veneto o della Lombardia, o del Lazio o della Sicilia, dove la vita si svolgeva ordinariamente all’ombra del campanile, nel senso che la Fede ne scandiva i ritmi principali. Allora la Fede era minacciata soprattutto da un avversario riconoscibile, noto e organizzato, che aveva i connotati visibili del partito comunista. Se si viveva in paesi come questi che ho descritto, la Fede era abbastanza protetta, mentre il discorso cambiava nelle “regioni rosse”, dove predominava l’altra visione del mondo e dove si ingaggiavano le battaglie epocali evocate negli scritti di Giovannino Guareschi. Infine, c’erano le grandi città, che erano dei “campi aperti”, dove le due culture si confrontavano e si scontravano, e dove i giovani, soprattutto a scuola o in università o nelle fabbriche, dovevano scegliere da che parte stare e quale visione del mondo assumere come direttrice della propria vita.
Laicismo e perdita della Fede
Ma la cultura delle persone cominciò a cambiare profondamente durante gli Anni Cinquanta. Se ne accorse il Magistero dei vescovi italiani in un documento profondo e profetico, sul laicismo, nel 1960, che metteva in guardia dalla penetrazione nella mentalità degli italiani di un diverso paradigma culturale, per il quale Dio cessava di essere il punto di vista che orientava la vita. Si trattava appunto del laicismo, cioè della riduzione della fede a qualcosa di privato, che non solo perdeva incidenza sulla vita pubblica, ma anche su quella personale. Il laicismo si sarebbe diffuso partendo da un piccolo gruppo di intellettuali che si staccò dal partito liberale, dando vita a quel partito-movimento radicale che avrebbe inciso profondamente sulla cultura e sul costume di molti italiani a partire dagli Anni Sessanta. Ma una certa forma di laicismo sarebbe penetrata anche all’interno del mondo cattolico. Nasceva così il “cattolico della domenica” e una società in cui la Fede diventava rilevante soltanto all’inizio e alla fine della vita, con il Battesimo e con il funerale, con l’aggiunta del matrimonio in chiesa per non dispiacere alla mamma e perché l’abito bianco faceva comunque la sua figura.
La Fede, da allora in avanti, subì continui e progressivi attacchi, a partire dal 1968 per continuare con le leggi su divorzio e aborto. Soprattutto, cambiavano cultura e costume e la Fede si riduceva sempre più in ambiti ristretti e privati. La Fede insomma non illuminava più la vita o, per dirla con le parole del beato Giovanni Paolo II, non diventava cultura, che appunto significa la stessa cosa, la separazione tra la fede e la vita.
Coltivare la Fede
Quest’ultimo Pontefice contribuì in modo significativo a fare capire ai fedeli quale e quanto grave fosse il problema del laicismo che entrava non soltanto nella vita pubblica ma anche in quella personale. Molti, soprattutto giovani, lo capirono, ma erano ormai, anche in Italia, delle minoranze, seppure significative. Quello che lentamente, troppo lentamente, cominciò a comprendersi era che la Fede deve essere alimentata, con la preghiera e con i Sacramenti, ma anche con lo studio dei suoi contenuti, con una verifica intellettuale della sua ragionevolezza. Bisognava insomma riprendere l’apologetica, una “nuova apologetica” capace di rispondere alle domande dell’uomo moderno, e bisognava riscoprire attraverso la catechesi la dimensione intellettuale della Fede, senza peraltro dimenticare che essa è e deve diventare una esperienza vitale e visibile.
Come utilizzare l’enciclica?
La prima enciclica di papa Francesco va in questa direzione di riscoperta della necessità di approfondire e fare crescere la nostra Fede. E così il secondo aspetto di cui vorrei scrivere a proposito di essa, tre mesi dopo la sua pubblicazione, riguarda la sua utilizzazione.
Vi ho chiesto di non lasciarla cadere nell’oblio. Ma come si può fare?
Tempo fa, l’allora segretario della Congregazione per la dottrina della fede, mons. Angelo Amato, riflettendo sulla novità rappresentata dalla presentazione del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica durante una celebrazione liturgica disse: «Come evento di Chiesa il Compendio non doveva essere la notizia di un giorno solo, come sono in genere le notizie giornalistiche, ma doveva essere, invece, la buona novella che illumina e guida i giorni e le opere dei pastori e dei fedeli di tutto il mondo. Il momento di preghiera stava a indicare che il Vicario di Cristo celebrava un evento di grande valenza spirituale e pastorale all’inizio del suo magistero petrino. Il documento, essendo un fatto ecclesiale, deve essere vissuto non come un caso mediatico accompagnato da toni sensazionalistici o scandalistici, ma come un importante evento di Chiesa, come esperienza di formazione, di evangelizzazione, di catechesi. La parola del Papa, e tutti gli altri pronunciamenti del magistero, oltre che un avvenimento “consumistico” della stampa quotidiana, deve essere visto soprattutto come un insegnamento, che tende a formare la coscienza cristiana».
In pratica, bisogna che il Magistero diventi qualcosa di importante e vitale nella vita delle comunità. Presentarlo con apposite conferenze, ma soprattutto leggerlo regolarmente all’interno di appositi “gruppi del Magistero”, dove ci si trovi per leggere insieme i testi dei Papi. E non ridurlo a un fatto intellettuale, ma accompagnare la pubblicazione di un testo del Magistero con la preghiera di ringraziamento e con gesti di festa.
Ci vorrà tempo, perché la cultura penetra lentamente nei singoli e nei gruppi, ma se si semina qualcuno raccoglierà. Altrimenti, ci si continuerà ad affidare soltanto a gesti emozionali, belli e certamente da non abbandonare, ma non sufficienti a nutrire la Fede.
Ricorda
«Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?». (Benedetto XVI, omelia durante la Messa celebrata a Lisbona l’11 maggio 2010).
IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 58 – 59
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