Un vescovo visita i nostri militari impegnati in Afghanistan. E constata che nello svolgimento di questa missione militare e umanitaria la fede è viva e vissuta con profonda intensità. Ecco il suo resoconto per il Timone
Dal 20 al 29 dicembre 2012 ho vissuto in Afghanistan con i militari italiani impegnati in missione di pace. La mia visita era su invito del comandante e del cappellano del 9° Alpini di stanza a L’Aquila.
L’Afghanistan è terra di violenza, purtroppo, e spesso ci si chiede che sarà del suo futuro quando partiranno i soldati della Nato? I militari italiani sono stimati e ben voluti (lo dimostra anche il limitato numero di attentati e di vittime registrato. Sono 52 i caduti, tanti ma pur sempre meno rispetto a quelli di altre Nazioni tipo gli Stai Uniti). Comunicano simpatia e vicinanza alle popolazioni. Questo è il riscontro che ho potuto toccare con mano nei contatti con le autorità locali ed esponenti mussulmani.
È ovvio che si vive in un permanente clima di guerra e le misure di sicurezza sono severe. Solo dando sicurezza si rende possibile la realizzazione di qualche azione umanitaria, come quella che ho potuto fare visitando l’orfanotrofio costruito e mantenuto dagli stessi militari a Farah. Alti i dispositivi di sicurezza e quando si esce dalla base intervengono a protezione le forze speciali addestrate per garantire l’incolumità di coloro che accompagnano. Anche per questo, sento una forte commozione nel sapere che quei ragazzi che mi scortavano con tanta premura rischiavano la vita per me. Li guardavo negli occhi: giovani con speranze nel cuore, ma anche una spada di Damocle costante sulla testa. Basta un attentato, un ordigno rudimentale, un razzo, una mina e saltano in aria. La morte è sempre dietro l’angolo. La mia visita, pur breve, ma in un periodo dell’anno quanto mai significativo dal punto di vista religioso, è stata un’inedita opportunità per vedere, anzi toccare con mano, la fede in trincea. Con i nostri soldati, ho trascorso giorni indimenticabili, carichi di umanità e di spiritualità. Mi è parso di capire che i nostri militari (in gran parte provenienti dalle regioni Centro-Sud dell’Italia) conservano un alto senso religioso, accentuato dalle difficili situazioni in cui si trovano. Sono stati non pochi quelli che mi hanno chiesto il Sacramento della Confessione. Un’esperienza pastorale quanto mai utile per capire i loro stati d’animo.
A Balaboluc il Tenente Colonnello Orsi, proveniente dal modenese, che guida la base dove ci sono 120/150 militari, mi ha commosso per la sua serenità, il suo sorriso aperto e solare e soprattutto la sua fede. Balaboluc è la base militare più avanzata, esposta al rischio della prima linea, in un deserto circondato da montagne che costituiscono luoghi di rifugio per coloro che vogliono attaccare i militari e le guardie afghane che i nostri cercano gradualmente di preparare a prendere in mano la sicurezza del posto. L’alpino che comanda il corpo, con una semplicità commovente, mi ha mostrato nella tenda multifunzionale che funge da luogo di incontro per meeting, momenti di preghiera e di svago, una piccola statua dell’Immacolata con una corona del rosario al collo. «Quando usciamo per le missioni – mi ha detto quest’Ufficiale – prendo la corona con noi. È un sostegno che ci da sicurezza. Quando torniamo la rimettiamo sul collo della Madonna » e aggiunge: «perché ricarichi le batterie». Potrebbe apparire quasi un gesto magico, ma non è così. Ho colto nell’espressione del tenente colonnello Orsi tanta fede. Un’inattesa lezione e un esempio anche per il sottoscritto.
Dopo Balaboluc, il mio viaggio fra i militari è proseguito nelle altre basi: stesso clima e stessa fede. Almeno in coloro che ho potuto avvicinare.
Non sarà facile dimenticare la messa della notte di Natale a Farah, dove la gran parte della forza militare è composta dal 9° Reggimento Alpini de L’Aquila. Ho avuto così la sensazione di compiere una visita pastorale tra persone che, in qualche modo, fanno parte integrante della Comunità diocesana aquilana. Più breve il soggiorno nella base di Scindand, dove i medici stavano operando d’urgenza un bambino brutalmente seviziato da un afghano per punire il padre perché collaboratore delle forze Nato. Da Scindand alla base di Camp Stone per celebrare la Messa. In un clima di grande devozione. Mi resta nella mente quel “Tu scendi dalle stelle” che i militari hanno intonato e che cantavano con sentimento, quasi a evocare emozioni antiche e sempre vive. E poi la sera del giorno di Natale, l’Eucaristia in inglese per i Marines americani. Anche questo un incontro marcato da grande fede. Al termine, il cappellano metodista ha voluto invitarmi a cena, dicendomi quanto sia importante la collaborazione tra le diverse confessioni cristiane, specialmente in queste zone ad alto pericolo e a contatto con l’Islam.
L’esperienza afghana che avrebbe dovuto, almeno nelle mie intenzioni, interessare solo il contingente italiano, si è allargata alle forze di altre nazionalità presenti nelle varie basi.
Del contingente spagnolo sono rimasto impressionato soprattutto dalla fede dei Comandanti, i primi a partecipare alle celebrazioni liturgiche. Per loro e per i militari spagnoli ho celebrato la Messa il 26 dicembre sera nella base militare di Herat. Anche qui mi è difficile esprimere l’emozione provata mentre, cantando i loro tipici inni natalizi, i presenti venivano a baciare il Bambinello.
A dare una nota di “colore” almeno per me, la notte del 26 dicembre ha nevicato e il giorno seguente il gelo ci ha fatto sperimentare -12/-15 gradi. Così ho conosciuto un altro volto della base militare di Herat dove per poco, quasi dimenticando di essere in un teatro di guerra sempre attivo, i militari si sono lasciati prendere dalla novità della neve e qualche scherzo ha fatto sorridere un po’ tutti. Di sorriso, in verità, c’è sempre tanto bisogno in situazioni di rischio permanente come in Afghanistan. Il 28 dicembre mattina, al risveglio, l’acqua non c’era perché i tubi erano ghiacciati. Così, come altri, mi sono lavato con la neve e poi rapidi preparativi per il ritorno.
Non sarebbe completo questo mio breve excursus se non sottolineassi il ruolo importante dei tre cappellani militari, con i quali ho avuto modo di trascorrere un’intensa settimana: don Fausto Amantea a Farah, don Fausto Corniani e lo spagnolo padre Victor a Herat. Un altro cappellano italiano, don Cesare Galbiati, il giorno del mio arrivo, il 21 dicembre, rientrava in Italia con la bandiera del suo reggimento. Circa un mese prima aveva dovuto accompagnare in Patria la salma dell’ultimo militare ucciso da un ordigno rudimentale nascosto per strada.
All’aeroporto della base di Herat, i due cappellani ripetendomi la riconoscenza di tutti, commentavano che per i soldati aver sentito un Vescovo così vicino era stata un’esperienza ecclesiale, che certamente lasciava in loro un segno difficilmente cancellabile. Debbo confessare che per me è stata un’esperienza molto forte.
Sono ripartito assieme a quasi 200 militari che rientravano per una breve licenza in Italia su un C130, e con un Boeing dell’aeronautica militare da Abu Dhabi ho poi raggiunto Pratica di Mare. Erano le 5.40 del mattino quando siamo giunti a destinazione. Un alpino mi si è avvicinato e, nel salutarmi, mi ha consegnato, a nome dei suoi colleghi, un biglietto con poche semplici parole cariche di grandi sentimenti: “Grazie, Vescovo, perchè sei stato con noi, sei stato uno di noi e ci hai portato Gesù Cristo. Non abbandonarci e prega per noi. Buon anno”.
IL TIMONE N. 121 – ANNO XV – Marzo 2013 – pag. 18 – 19
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