Il giorno festivo ha origine divina. Non è solo il tempo del non lavoro, bensì quello della gratuità, del rendimento di grazie e della lode per il Creatore del mondo
«[…] gli dei, mossi a compassione del genere umano, condannato per sua natura al lavoro, hanno elargito all’uomo, per ristorarlo nella penosa fatica, degli intervalli di riposo nella successione regolare delle feste istituite in loro onore, e hanno voluto che le Muse, Apollo loro capo e Bacco, le celebrassero con lui, affinché l’uomo educandosi in quella convivenza festiva con gli dei, ricevesse luce e forza per una vita retta».
«Questo è il giorno fatto dal Signore; rallegriamoci ed esultiamo in esso».
Sia la riflessione di Platone che l’espressione dei Salmi affermano l’origine divina della festa e ne individuano la radice e il significato nel culto. Si tratta di una visione estranea alla percezione dell’uomo contemporaneo, condizionato a pensare il giorno festivo come un giorno di “non-lavoro”, identificato con il tempo libero, o con il tempo dedicato al divertimento e inteso, in una prospettiva di autodeterminazione individualistica, come il proprio angolo di paradiso, non importa se artificiale.
Festa e gratuità
È certamente vero che il giorno di festa è un giorno “libero”, tuttavia ciò è vero non solo nel senso riduttivo del non-lavoro, bensì per il fatto che esso è caratterizzato dall’assenza di calcolo, dalla libera rinuncia al profitto del giorno lavorativo. Questa assenza di calcolo, così lontana dall’utilitarismo economicista della società dei consumi, crea uno spazio di ricchezza sovrabbondante, non monetaria, ma esistenziale, nella vita di chi è capace di far festa; al contrario, il dominio assoluto di una ragione utilitaristica e calcolatrice rende impossibile la festa e, per quanto sia elevato il benessere materiale, rivela la profonda indigenza spirituale di quanti sono incapaci di rinunciare per amore e con gioia al lavoro quotidiano e al relativo guadagno.
Prefigurazione di Gioia Totale
Anche l’idea della festa come tempo dedicato solo al divertimento è insoddisfacente; come osserva Josef Pieper, «la dolce vita è qualcosa di disperatamente poco festivo». Il tempo vuoto riempito di emozioni forti non è una risposta che soddisfa il desiderio umano di festeggiare. Nella natura della festa è insita, infatti, l’aspettativa di conseguire una felicità piena e duratura insieme alle persone che amiamo, anzi è insita la celebrazione gioiosa di tale felicità come già in qualche modo presente; per questa ragione la festa deve essere qualcosa di più e di diverso dalle situazioni piacevoli, divertenti o emozionanti che l’uomo è in grado di procurare a se stesso; la festa autentica è tale per la presenza di un bene che non rientra nel potere umano, un bene elargito da Dio, perciò essa è «il giorno fatto dal Signore»; questo vale sia per le feste religiose che per le feste mondane (per esempio i compleanni o gli onomastici), a patto che non siano profane, ossia non escludano a priori il riferimento a Dio.
“Consenso” verso il mondo
La causa concreta della gioia di chi festeggia, oltre ad essere sempre legata a un avvenimento reale, è suscitata e preceduta dal consenso verso il mondo nel suo insieme, dove consenso significa riconoscimento, più o meno esplicito, della bontà originaria della realtà di cui ci rendiamo conto. È stato Nietzsche a formulare l’intuizione decisiva (acquisita con dolore, come risultato di esperienze interiori, tra cui la disperazione di non poter avere gioia in nulla) della sintonia con il mondo come condizione della gioia. La formulazione recita così: «Per rallegrarsi di qualcosa si deve approvare tutto».
L’approvazione alla realtà di cui si parla in questo contesto non deve essere confusa con l’ottimismo superficiale, inconsapevole del male presente nel mondo; al contrario, la sua serietà si mostra, come acutamente nota Josef Pieper, proprio nel confronto con il male storico: «Questo consenso è di natura tale che bisognerebbe poterselo aspettare dallo stesso martire, persino nel suo estremo silenzio sotto la presa mortale della violenza» e «quanto contraddistingue il martire cristiano è proprio il fatto che non affiora dalla sua bocca nessuna parola contro la creazione divina. Malgrado tutto, egli trova che ciò che esiste è “molto buono”; malgrado tutto egli resta capace di gioire e persino, per quanto dipende da lui, di festeggiare. Invece, colui che rifiuta il proprio consenso all’intera realtà, è proprio per questo incapace dell’una cosa e dell’altra. Per chi disapprova non c’è festa» (J. Pieper, Sintonia con il mondo, p. 45).
Dunque la “lode” è una caratteristica fondamentale della festa: lode del mondo e lode di Dio creatore del mondo. Lode, onore, esaltazione e ringraziamento costituiscono anche il cuore del culto in generale e del culto cristiano in particolare.
La lode resa a Dio nel culto trova una corrispondenza profonda nel “riposo” di Dio che segue il “lavoro” dei primi sei giorni della creazione; l’atto creatore che è a fondamento del mondo è permanente di sua natura e Dio non cessa mai di operare; il riposo divino del settimo giorno non allude pertanto a un Dio inoperoso, ma sottolinea la pienezza della realizzazione compiuta, esprime la “sosta” di Dio di fronte all’opera «molto buona» uscita dalle sue mani, per volgere ad essa uno sguardo di gioioso compiacimento, uno sguardo «che non mira più a nuove realizzazioni, ma piuttosto a godere la bellezza di quanto è stato compiuto» (Giovanni Paolo II, Dies Domini, n. 11). Mediante la lode e il rendimento di grazie l’uomo condivide lo sguardo di gioia compiaciuta di Dio per il creato, “riposando” come Lui e insieme a Lui e celebrando con ciò la gioia di essere una creatura che Dio ha creato per gioia.
Rapporto con la Resurrezione
Ma nel culto cristiano il settimo giorno è stato sempre compreso anche come simbolo premonitore e anticipo della pienezza del dono di Dio e nel contempo come immagine del “secolo futuro”; tale pienezza è in relazione all’evento storico della Resurrezione di Cristo che, vincendo la morte e con essa ogni male presente nel mondo, dà inizio all’elevazione dell’uomo alla nuova condizione di filiazione divina, inaugurando la “seconda” creazione. Nella festa di Pasqua confluiscono così le celebrazioni del dono della creazione, della partecipazione dell’uomo alla vita divina e della promessa della gioia piena. Dalla sovrabbondanza della Pasqua si può dire che nasca una festa ininterrotta, continuamente sussistente e continuamente sperimentata, benché nascosta nel tempo quotidiano, e celebrata nel Dies Domini. Senza la gioia e la speranza che all’uomo possa capitare in dono di partecipare a questa pienezza sovrumana di vita non potrebbe esistere né la festa religiosa, né quella mondana.
Solo il culto fa risorgere la vera festa
I rapidi cambiamenti sociali e culturali a cui la società occidentale è stata sottoposta negli ultimi decenni hanno influito notevolmente sul modo di percepire e di vivere la festa. Il rifiuto di Dio, espresso come affermazione assoluta della libertà, ha generato il rifiuto dell’approvazione alla propria esistenza. Uscito dalla propria dimora interiore, l’uomo si riversa fuori di sé verso gli stimoli ossessivi del divertimento pseudo festivo e nel rumore del lavoro ininterrotto. In questa situazione di privazione profonda non si possono attendere cambiamenti decisivi dall’azione umana: piuttosto sarà il culto a far risorgere l’autentica festa.
Per saperne di più…
Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Dies Domini, www.vatican.va
Josef Pieper, “Otium” e culto, Morcelliana, 1956.
Josef Pieper, Sintonia con il mondo. Una teoria sulla festa, Cantagalli, 2009.
Fabrice Hadjadji, Il paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda, Lindau, 2013.
IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 32 – 33
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