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11.12.2024

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La forza della debolezza

La forza della debolezza

 

 

 

L’unicità del cristianesimo si rivela anche in questo paradosso: la debolezza, lungi dall’essere una limitazione, è un punto di forza. Sul quale edificarela propria vita.
L’esempio di Gesù Cristo.

 

Tra i tanti paradossi evangelici che ribaltano l’ottica del mondo ce n’è uno che forse appare ancor più misterioso degli altri.
Lo facciamo dire a san Paolo, un uomo, come sappiamo, introdotto alla fede in modo traumatico, ricolmo di doni soprannaturali e di rivelazioni che lo renderanno, insieme all’apostolo Giovanni, uno dei primi e al contempo uno dei più grandi mistici-teologi della storia cristiana. Una colonna portante della Chiesa nascente, che si andava costruendo sulla pietra d’angolo rappresentata da Gesù Cristo. «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. (…) Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 7-10).
«Quando sono debole è allora che sono forte». Ha dell’incredibile questo ribaltamento totale, che sembra opporsi ad ogni saggezza e ad ogni logica umana. La quale, anche quando cerca di muoversi all’interno di una dimensione etica, può sì giungere fino a proporre di accettare la propria debolezza, rifuggendo da un atteggiamento di rifiuto di sé che paralizza. Ma non può certo suggerire di guardare al limite come a un vantaggio, addirittura come al punto di forza sul quale edificare la propria vita esteriore ed interiore.
Perché il cristiano ha questo modo diverso di guardare all’uomo e alla sua fragilità? È sempre Paolo a spiegarcelo: «Di queste cose noi parliamo non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui e non è capace di intenderle perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito (1 Cor 2, 13-14)». Continuando ancora: «Noi parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria, nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (1 Cor 2, 7-8).
Ecco dunque la chiave per capire e per penetrare il mistero: Gesù. Quando pensiamo alla sua passione e alla sua morte in croce, noi sottolineiamo soprattutto quella sua grande sofferenza fisica e morale. Ma forse non ci soffermiamo abbastanza su un altro aspetto, che invece è altrettanto importante. Su quel suo farsi, cioè, progressivamente sempre più debole fino alla resa finale. Non dimentichiamo infatti che Gesù non solo era certamente un uomo sano ed aitante, ma possedeva anche una forza e un vigore morale sovrumani. Ridava la vista ai ciechi, faceva camminare i paralitici, guariva ogni sorta di malati, addirittura risuscitava i morti. Così, avrebbe certamente potuto opporsi a quella violenza che giorno dopo giorno andava montando verso di lui, tenere a bada quegli uomini che stavano per tradirlo e catturarlo. Avrebbe saputo benissimo difendere la sua persona e la sua immagine una volta tratto davanti a chi lo stava giudicando e condannando a morte.
Perché non lo ha fatto? Perché ha accettato di precipitare sempre più nel baratro, sino alla fine ingloriosa? Perché, ripieno della sapienza di Dio, sapeva che proprio quella sua debolezza sempre più grande, accompagnata da un’umiliazione crescente, era la via maestra per consentire una risurrezione – sua e per ogni uomo da quel momento in poi – che rappresentava al contempo la maggiore gloria di Dio ma anche dell’umanità. È stata quella debolezza di Gesù spinta fino all’estremo, è stato quell’abbandono totale e fiducioso al Padre perché operasse in lui con tutta la pienezza possibile, è stata quella resa incondizionata, che ha reso possibile la grande operazione dello Spirito che è stata la risurrezione.
Gesù ha scelto volontariamente, e per amore, di farsi debole. Noi, invece, ci ritroviamo deboli a causa della nostra natura appannata dal peccato originale e da tutte le sue conseguenze. Così facciamo esperienza, chi prima e chi dopo – ma nessuno sfugge mai del tutto – di malattie fisiche, di sofferenze morali, di difetti nostri e degli altri che ci complicano la vita, di un sentimento di tristezza, fino talvolta all’angoscia per questa vita, così difficile da intendere nel suo significato e nella sua direzione. Capiamo spesso che le cose andrebbero probabilmente meglio se sapessimo vedere i nostri limiti e cambiare.
Invece, dobbiamo lottare contro i nostri peccati nei quali ricadiamo facilmente, mentre perdiamo progressivamente le forze proprio quando ci sembrerebbe di averne maggiormente bisogno, quando ci troviamo nel tratto finale della nostra esistenza e dobbiamo prepararci alla morte, quel grande passo che – inutile dirlo – ci fa sempre paura.
E, invece, è proprio questa situazione di debolezza in cui siamo costituiti, questo essere continuamente e imprevedibilmente esposti ai venti di tutti i tipi pronti a squassare la nostra vita, ciò che attira non solo la tenerezza ma la potenza divina. Che, tuttavia, può pienamente operare solo se noi ce ne rendiamo conto e accettiamo la situazione.
Noi cristiani, dunque, come tutti gli altri facciamo esperienza della nostra fragilità e debolezza. Ma, in più, ci viene rivelato che essa non è soltanto una condizione negativa. È sì, imperfezione, limite, sofferenza, ma quella che appartiene a una creatura che non è abbandonata a se stessa, bensì avvolta amorevolmente nell’abbraccio divino. A noi, dunque, non tocca solo, per realismo, accettare in noi e negli altri quei limiti che ci consentono di vivere un po’ meno peggio. Ci è dato di più. Ci è dato di sapere che tutta questa nostra fragilità, tutto questo fardello di debolezza che ci pesa sulle spalle, siamo chiamati a deporli nel cuore divino che palpita d’amore per noi e che saprà trasformarlo in grazia.
Per questo possiamo essere al contempo realisti, persone cioè che non hanno paura di guardare bene in faccia la verità nostra e degli altri. Ma al contempo ottimisti, perché tutto ciò che siamo, tutto ciò che crediamo, tutto ciò che facciamo non è proporzionato alla nostra forza ma alla nostra fede, alla nostra capacità di riconoscere la debolezza che è in noi, e che, proprio perché è tale, lascia spazio all’amore e alla potenza divina. Siamo gente che si abbandona a quel Dio in cui crede con la consapevolezza di essere non persone fiere della propria autonomia, giudici e giustificatori di se stessi, ma esseri pieni di limiti, e tuttavia strumenti, a Dio piacendo, di amore e di grazia.

 
 
 
 
 
RICORDA
«È palese la necessità di invocare senza tregua, con fede forte e umile: “Signore, non fidarti di me. Io, sì, mi fido di te”. E nel presagire nell’anima l’amore, la compassione, la tenerezza con cui Cristo Gesù ci guarda – perché lui non ci abbandona – comprenderemo in tutta la loro profondità le parole dell’Apostolo (Paolo) “Virtus in infirmitate perficitur (la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza)”; confidando nel Signore, nonostante le nostre miserie – anzi, con le nostre miserie – saremo fedeli a Dio nostro Padre; risplenderà il potere divino e ci sarà di sostegno nella nostra fragilità».
(J. Escrivà de Balaguer, Amici di Dio, n. 194).

 
 
 

IL TIMONE – N.49 – ANNO VIII – Gennaio 2006 – pag. 56-57

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