E’ un appuntamento inevitabile. Nel ‘900 è iniziata la stagione della morte come tabù.
L’importante è non pensarci. Ma la “morte repressa” scatena nell’uomo una paura accresciuta. Solo la Chiesa offre una risposta di verità e di speranza, perché la morte è trasformata e vinta da Cristo.
Si può ancora parlare della morte? Verrebbe subito da rispondere che non soltanto si può, ma si deve. Passeggiando per strada e osservando le persone sconosciute che incontriamo, non possiamo fare a meno di pensare che ognuna porta impresso nel volto un destino comune. La giovane donna graziosa e il manager di mezza età, il ragazzo in bicicletta e il vecchio pensionato, tutti corrono verso un appuntamento inevitabile: l’ora della morte. Non sanno quando accadrà, ma è certo che nessuno potrà sfuggire a questo fatto. Dunque, per l’uomo è impossibile sottrarsi all’evento tragico della morte, e al carico di domande e di inquietudini che esso porta con sé. La morte bussa alla porta di ognuno in molti modi: riempiendo le cronache quotidiane dei giornali e delle tivù; colpendo una persona cara, un genitore, un amico; e poi, più vicino ancora, avvisando me e te, con segnali inequivocabili, che il tempo volge al termine e un giorno non gli altri, ma io stesso dovrò passare attraverso l’ultima grande prova.
La morte come tabù
Nonostante la stringente evidenza di questa verità, che non nasce da elucubrazioni filosofiche ma dall’esperienza di ogni uomo, oggi siamo sempre più immersi in un clima di sistematica distrazione dal pensiero della morte. Si tratta di un fenomeno che ha preso consistenza almeno a partire dagli anni Sessanta in Occidente, e che ha progressivamente trasformato l’atteggiamento delle persone rispetto al problema del morire. Si potrebbe distinguere la storia della civiltà occidentale in tre grandi periodi: una prima era – pensiamo alla cultura greca e romana antica – nella quale gli uomini avvertivano tutta la drammatica necessità di dare una risposta sensata allo scandalo della morte, ma non avevano una risposta sicura, certa, veramente liberante. Poi, una seconda lunga stagione, illuminata dalla rivelazione cristiana, nella quale la morte faceva parte a pieno diritto della vita, e il pensiero del morire – senza che ne fosse rimosso lo strazio e la sofferenza che umanamente ad esso si accompagna – era costantemente presente nell’esperienza di ogni uomo, santo o peccatore che fosse. Perché era a tutti evidente che il giorno del trapasso avrebbe segnato non la fine di tutto, ma l’inizio di una esistenza eterna, di salvezza o di condanna. Poi, nel ‘900 – ma come esito di cattive dottrine nate secoli prima – è incominciata una nuova stagione, che ancora perdura: quella della morte come tabù della società e del singolo. Un atteggiamento di gaia incoscienza, che sembra aver superato per sempre la paura del morire, affermando che l’importante è fare ogni sforzo per non pensarci. Ne ha fornito una lucidissima analisi Vittorio Messori in uno dei suoi libri più belli, quella Scommessa sulla morte pubblicato dalla Sei nel 1982. In un clima ancora ampiamente inquinato dalle ideologie, Messori metteva il dito nella piaga: nessuna teoria umana ha una risposta da dare al grande interrogativo della morte; nessuna promessa di affrancamento o di eguaglianza sociale può rimuovere il destino tragico dell’esistenza. Per questo motivo, intellettuali e ideologi non possono far altro che tentare un gigantesco processo di rimozione del morire.
I sintomi del malessere
Questo fenomeno si manifesta attraverso una serie di sintomi evidenti. Eccone alcuni, ben riconoscibili nell’esperienza comune.
a) I bambini ingannati. I fanciulli sono le prime vittime del processo di rimozione della morte.
Mentre in passato essi erano naturalmente presenti al capezzale del moribondo, sempre più spesso oggi il fatto del morire viene sottratto allo sguardo del bambino, e la scomparsa del nonno viene raccontata come la partenza per un lungo viaggio in un paese lontano. Come scrive Philippe Ariès “non sono più i bambini a nascere sotto i cavoli, ma i morti a scomparire tra i fiori”.
Con il risultato paradossale che il bambino viene sempre più bruscamente introdotto nel mondo della sessualità, forzando il suo naturale sentimento del pudore, e viene allontanato dalla realtà della morte come se fosse una cosa sporca e oscena. In realtà l’uomo manifesta sin da piccolo una innata comprensione della finitudine di tutte le cose, e della “normalità” del morire; ma rieducato secondo i nuovi canoni della morte come fatto vietato ai minori di 14 anni, egli viene indotto a pensare a tutto fuorché alla morte. Quando, prima o poi, si imbatte in essa, rischia di rimanerne completamente sconvolto.
b) La privacy del caro estinto. Nelle culture tradizionali la morte ha sempre un carattere pubblico, normale, domestico. L’avvicinarsi della fine – come spiegava il filosofo Emanuele Samek Lodovici – era ritualizzato, cioè cadenzato da una serie di gesti definiti, che si susseguono in maniera ben nota ai parenti, e tale da evitare che il morente si senta solo o sia espropriato della sua morte.
Dentro questo fatto antropologico si inseriva in maniera del tutto naturale l’elemento
soprannaturale, la preghiera di accompagnamento dell’agonia e i cosiddetti conforti religiosi, che proiettavano il cuore e la mente di tutti verso l’appuntamento più importante per ognuno di noi: il giudizio particolare davanti a Dio Padre.
Ma in una società che vuole scacciare via il pensiero della morte – con tutte le domande connesse e le relative risposte che la fede fornisce – è lo stesso morente che deve essere isolato.
Bisogna fare in modo che egli sia messo in condizione di non nuocere, si deve evitare che mostri sé stesso agli altri come monito esplicito del destino di tutti. Ogni segno esteriore che rimanda al morire deve essere ricondotto a una sfera privatissima, intima, non pubblica. Per cui, in molte città, ufficialmente per ragioni di viabilità e di traffico, gli stessi cortei funebri devono essere soppressi. Bisogna uscire di scena in punta di piedi, perché lo spettacolo della vita deve continuare e nessuno sia indotto a fermarsi davanti al feretro che passa per mormorare una preghiera. ” lutto diventa indecente.
c) La felicità obbligatoria dei Lumi. L’illuminismo ha avuto un ruolo importante nel processo di rimozione della morte dalla società: per i filosofi dei lumi la felicità sociale è un obbligo, che viene garantito dalle “magnifiche sorti e progressive” della scienza che avanza. Dunque, bisogna togliere di mezzo il pensiero della morte, che si oppone come un macigno ingombrante (e irremovibile) al mondo nuovo ipotizzato dagli intellettuali dell’Enciclopedia. Inoltre, l’illuminismo vuole eliminare dall’orizzonte dell’uomo l’idea di male, di peccato. Ma ogni volta che l’uomo guarda in faccia la morte egli vi ritrova una eco proprio del peccato originale. Dunque, la morte famigliare viene sostituita da una morte repressa, che non dà affatto sollievo all’uomo, ma scatena in lui una paura accresciuta e penetrante.
d) L’importante è non accorgersi. Tra i luoghi comuni più diffusi nel tempo presente, espresso bene dal linguaggio lieve delle conversazioni d’ascensore o dai convenevoli in uso fra persone ben educate, vi è diffusissima l’idea che l’importante sia andarsene da questa vita senza avere il tempo di rendersene conto. Poco importa se, alla prova dei fatti, le morti improvvise siano sempre una tragedia inenarrabile per parenti e amici colpiti da un lutto non previsto che lascia attoniti.
Si dice e si pensa che l’essenziale è non soffrire, non provare dolore, uscire di scena senza farsi troppe domande, mettendo in pratica il risi bile rimedio suggerito da Epicuro, per il quale la morte non è un problema, perché quando c’è lei noi non ci siamo più. Molti non si rendono conto che questa mentalità è esattamente il contrario di quanto la Chiesa ha insegnato per duemila anni. E di quanto Gesù stesso più volte raccomanda nel Vangelo: “Estote parati”, siate pronti, perché non sapete né il giorno né l’ora.
e) La menzogna al malato. Si arriva così a negare l’evidenza, anche quando la morte non è più solo una astrazione generica, ma riguarda un qualcuno in particolare: si preferisce mentire al malato, perché si è completamente impreparati all’evento del morire, e si teme di fare del male al malato. Così, come scrive Emanuele Samek Lodovici, il paziente viene espropriato della sua morte, e gli viene impedito di trasformare un fatto biologico inevitabile – il suo cuore presto si fermerà per sempre – in un atto personale che fa diventare il generico decesso il “suo” morire.
f) La cremazione. Anche se questa pratica può non avere sempre questo significato, è innegabile che essa nasca come strumento inconsapevole per liquidare definitivamente il defunto. Il defunto non c’è più, si è volatilizzato, e non dobbiamo nemmeno andarlo a trovare in qualche luogo, con un gesto che obbliga, poco o tanto, a partecipare alla sua morte.
Le risposte della Chiesa
Dobbiamo riconoscere che nemmeno i cattolici sono rimasti indenni da questo cambiamento epocale: la predicazione domenicale, la catechesi parrocchiale, i piani pastorali hanno subito il fascino di questa fuga dal tema della morte, preferendo attenuare la riflessione sui Novissimi, sulle cose ultime. Ma il Magistero della Chiesa è sempre rimasto fedele alla dimensione escatologica della vita cristiana, fornendo un punto di riferimento sicuro alla domanda che si trova nel cuore di ogni uomo. Perché ognuno di noi vuole sapere che cosa c’è dopo quella parte dell’avventura umana che è sperimentabile e prevedibile. Si tratta di un problema che non può essere riservato agli specialisti, perché chiama in causa l’uomo comune. Il quale, se si affida al pensiero marxista o alla filosofia che sottende il capitalismo, si sentirà rispondere che la morte personale non conta, l’importante e che la storia si evolva verso il progresso. Se poi si ascolta la montante marea nichilista, se ne conclude che la morte è la fine di tutto. Ma se il nulla è la meta di ogni vita, allora il nulla è la sostanza stessa dell’esistenza, qui e ora. E diventa impossibile qualsiasi ragionamento.
Solo nella Chiesa è possibile trovare una risposta di verità e di speranza. Perché la morte è trasformata e vinta da Cristo, per un destino di beatitudine eterna in anima e corpo. I miliardi di uomini che sono passati e scomparsi dalla scena del mondo non sono precipitati nel nulla, ma vivono. Ed è questo destino di bene che, alla fine, attende ognuno di noi.
“Il problema è molto interessante, drammatico e inevitabile, perché I casi sono due: con la morte o si va a finire nel niente o si va a finire nella vita eterna. Le altre soluzioni sono forzatamente provvisorie. lo so già che tra qualche anno o andrò a finire nel niente o andrò a finire nella vita eterna. Ma se andrò a finire nel niente, io vivo già adesso per niente; cioè, se l’approdo dell’esistenza è il niente, anche la sostanza dell’esistenza è il niente, e questo è un’assurdità. Che qualcosa debba venire dal niente solo per tornare nel niente è una contraddizione”.
(Giacomo Biffi, L’Aldilà, Elledici Leumann 1998, p.5).
BIBLIOGRAFIA
Vittorio Messori, Scommessa sulla morte, SEI, Torino 1982.
Emanuele Samek Lodovici, Il limite negato, Quaderno di Studi cattolici n. 230-231.
Giacomo Biffi, Discorso al Consiglio comunale di Pianoro, Bologna, marzo 1999.
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 988 -1050
Alessandro Maggiolini, La santa paura – L’arte di morire, Mondadori, Milano 2000.
Dossier: Nostra sorella Morte
IL TIMONE N. 37 – ANNO VI – Novembre 2004 – pag. 36 – 38
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