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13.12.2024

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La grande sorpresa di Giovanni
31 Gennaio 2014

La grande sorpresa di Giovanni

 

 

Durante le così tanto sospirate ferie, è certamente salutare dedicarsi anche alla lettura. Il Timone suggerisce qualche autore. Conoscerli, farà bene alla salute. Dell’anima e della mente

Il padre Ignace de la Potterie, gesuita, ebbe a lungo la cattedra di Nuovo Testamento giudicata (a ragione) la più importante nell’Istituto, a sua volta considerato (anche qui, a ragione) come il più autorevole della Chiesa per gli studi sulla Scrittura. Parliamo del Pontificio Istituto Biblico, emanazione di quella Università Gregoriana il cui Rettore – a conferma della sua importanza – è nominato dal Papa stesso. Il “Biblico”, come viene abitualmente chiamato, fu fondato nel 1909 da san Pio X per rispondere, con le stesse armi di rigore scientifico, all’attacco alle basi stesse della fede portato dalla cosiddetta “critica indipendente”. Quella, cioè, che sezionava i testi dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento, concludendo – assai spesso – che non si trattava di storia bensì di miti, simboli, leggende e che il “Gesù della storia”, quello realmente vissuto, era un oscuro personaggio, dalla biografia incerta, che poco o nulla aveva a che fare con il “Cristo della fede”. Insomma, il Credo aveva basi abusive e storicamente insostenibili e il cristianesimo null’altro era che una tardiva costruzione nata tra ellenisti ed elementi marginali di un giudaismo oscuro.
Davanti a un simile assalto, la Chiesa si rese finalmente conto che non bastava indignarsi e lanciare invettive contro i “miscredenti” ma che occorreva replicare con i medesimi strumenti, con la medesima erudizione. A questo si dedicò dunque il Pontificio Istituto, con buoni risultati che, innanzitutto, tolsero ai cattolici il timore che le fondamenta della loro fede non fossero più difendibili davanti alla Scienza (con la maiuscola, ovviamente, come volevano i professori delle università laiche) e tolsero loro il sospetto, magari inespresso ma tormentoso, che proprio l’incarnazione di Dio nella storia fosse improponibile secondo le rigorose categorie della storia moderna.
Il professor de la Potterie, morto pochi anni fa, fu parte eminente e del tutto degna della schiera degli studiosi che hanno illustrato il Biblico per oltre un secolo, avendo tra l’altro fra i docenti e poi tra i direttori un Carlo Maria Martini. Ovviamente coltissimo, padrone di molte lingue sia moderne che antiche, il padre Ignace mi onorava della sua amicizia e condivideva quanto cercavo di fare (ovviamente al mio livello di non specialista, seppure informato della materia quanto più mi era possibile) per trovare conferme della storicità dei vangeli. E quando, ormai molto anziano, si ritirò nel suo Belgio natale, ogni tanto mi sorprendeva con una telefonata che mi rallegrava e al contempo un poco mi rattristava. In effetti, si sfogava con me, disapprovando un certo “modernismo” e “razionalismo” che era entrato anche tra i biblisti cattolici, spesso per imitazione dei troppo venerati docenti delle facoltà teologiche protestanti che, in Germania, esistono ancora nelle università pubbliche.
Non potevo non dargli ragione anche perché l’ottimo padre Ignace era tutt’altro che un chiuso tradizionalista, era anzi a conoscenza di tutti i metodi e di tutte le teorie moderne, di cui accettava ciò che non tendeva a trasformare in mito o in simbolo il realismo storico dei vangeli. Professori per i quali nulla, nella Scrittura, andava preso così come sta scritto e le sole cose indiscutibili erano le loro note e le loro introduzioni “demitizzanti”.
Pur muovendosi con padronanza in tutta la Scrittura e in particolare nel Nuovo Testamento, de la Potterie era conosciuto soprattutto come il miglior conoscitore di Giovanni: il Vangelo, ovviamente, ma anche le tre lettere che gli sono attribuite. E proprio nel quarto evangelista aveva individuato, chiarito e messo in rilievo, con sicurezza sino ad allora mai raggiunta, un aspetto tanto importante quanto pochissimo conosciuto. E cioè, nientemeno che questo: nel celeberrimo Prologo («In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…»), Giovanni ci darebbe testimonianza esplicita e precisa della triplice verginità di Maria: prima, durante e dopo il parto. Lo stesso padre de La Potterie mi diceva, e scriveva nei suoi articoli, che tra i biblisti d’oggi (persino, purtroppo, in certe università cattoliche) si preferisce sorvolare su questo aspetto, pur così importante, della storia della redenzione. In alcuni ambienti, chi ancora parli con fede convinta della semper Virgo suscita diffidenza quasi fosse un “integrista”, oppure provoca ironia, come si addice a un vecchio retrogrado. E invece, ecco quel docente illustre di un illustre ateneo pontificio scrutare il “suo” Giovanni e, proprio all’inizio del vangelo scoprire (o riscoprire, lo vedremo) che il testo era stato manipolato già in tempi antichi, nascondendo così la verità con un semplice passaggio di un verbo dal singolare al plurale.
Il professor de la Potterie aveva esposto la sua documentatissima tesi in due articoli di ben 50 pagine ciascuno su Marianum, la rivista dell’omonima facoltà teologica pontificia, già nel 1978 e aveva ripreso il discorso, arricchito da nuove ricerche, nel 1983. Quelle cento pagine, fitte di note e di citazioni in latino, in greco, in ebraico erano state molto lette dagli specialisti i quali, però, avevano scelto il silenzio. Succede spesso, nel mondo dei biblisti: ciò che può mettere in discussione gli schemi e i pregiudizi egemoni del momento è rimosso, se non ne è possibile una stroncatura, vista (come in questo caso) la rigorosa serietà critica della ricerca e l’autorevolezza dell’autore. Ricordo come in una delle sue ultime telefonate, il vecchio studioso si rammaricasse del silenzio attorno a un tema così importante. Mi parve che, in lui, vi fosse un inespresso ma esplicito, cortese invito ad aiutarlo a fare conoscere una simile scoperta, tanto rilevante per la fede stessa e tale da appoggiare con l’autorevolezza del quarto evangelista il dogma della perenne verginità di Maria. Ebbene, con queste pagine, cercherò di aderire al desiderio del padre Ignace, dando notizia di quella ricerca di cui è stato l’efficace strumento ma che non riguarda certo lui e la sua carriera scientifica, bensì la fede di noi tutti. Qui darò, ovviamente, solo una sintesi divulgativa seppur (così almeno spero) corretta, vista l’attenzione con cui ho esaminato quel centinaio di pagine. Ma sarà bene che chi vuole approfondire vada ai due articoli di de la Potterie, magari facendoseli inviare via mail dalla stessa rivista (marianum@marianum.it): assicuro che ne vale la pena. Non si tratta qui di una sorta di curiosità ma di un modo per rafforzare, basandosi sulla Scrittura stessa, una verità su Maria che la Chiesa ha sempre creduto e proclamato.

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Vediamo, dunque, come stiano le cose, riproducendo il breve versetto su cui tutto si basa. È il tredicesimo del primo capitolo, quel Prologo giovanneo cui sopra accennavamo e che diamo nell’ultima versione (quella del 2007) della Conferenza Episcopale Italiana. Ma per comprendere, dobbiamo prima riprodurre anche i due versetti precedenti, l’undicesimo e il dodicesimo: «Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome» . Seguono le righe su cui si è appuntata la ricerca del nostro studioso: «I quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati».
Questa, dunque, la versione tradizionale e questa, invece, secondo il docente del Biblico, la versione autentica: «Non da sangui, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio egli (Gesù) è stato generato».
Come si vede, il verbo “generare” è al singolare e non al plurale come nella versione delle nostre edizioni della Scrittura. In effetti, il soggetto è uno solo: Gesù. Mentre nella versione tradizionale, è al plurale, il soggetto essendo «quelli che credono nel suo nome». Dunque, per ripeterci ma per maggior chiarezza, in questo punto decisivo: messo al singolare, il versetto parla della generazione divina del Cristo; messo al plurale parla della trasformazione dei credenti in lui. Da notare subito, anche, che – in tutti i manoscritti antichi che abbiamo – “sangue”, in greco, è al plurale ma mentre nella Vulgata latina il plurale è stato rispettato (ex sanguinibus), in italiano è stato sempre tradotto al singolare. Eppure (si controlli anche su dizionari classici come quello del Tommaseo), “sangui” in italiano è raro ma esiste ed è impiegato anche da buoni autori. Se nelle traduzioni italiane non lo si è usato e non lo si usa tuttora, non è (come molti hanno detto) perché “sangui” non c’è nella nostra lingua, ma perché non si è compreso quale fosse la sua importanza nel pensiero di Giovanni. Come vedremo.
La prima domanda da fare è questa: i documenti antichi che abbiamo del Nuovo Testamento autorizzano a usare la terza persona singolare del verbo “generare” (attribuendola a Gesù) invece della terza persona plurale, attribuendola ai cristiani? Va subito detto: tutti, o quasi, i manoscritti greci hanno il plurale. Ma i più antichi di essi risalgono solo al quarto secolo, se si escludono dei frammenti casuali su papiro. E, invece, abbiamo testi di scrittori cristiani e poi di Padri della Chiesa, risalenti al secondo secolo, che citano questo versetto al singolare. Per risalire ai più antichi, sant’Ireneo di Lione, verso il 190, usa il singolare. Addirittura, il sempre polemico Tertulliano, attorno all’anno 200, imbastisce una disputa proprio attorno a questo brano e accusa una setta di eretici di avere falsificato le parole di Giovanni, mettendole – appunto – al plurale. Cioè, quello che è entrato nel testo ufficiale del Vangelo e che ancora usano le nostre edizioni attuali. Oltre al latino, abbiamo la testimonianza del singolare nei testi più antichi in siriaco, in copto, in etiope.
Va precisato per coloro che non hanno familiarità con la critica biblica: la ricostruzione del testo originale della Scrittura condotta solo sui documenti superstiti è detta “critica esterna”. Ma questa va completata (tutti gli studiosi moderni concordano) con la “critica interna”, che scende più in profondo e che, in questo nostro caso, porta a preferire un “è stato generato” piuttosto che un “sono stati generati”. Insomma, la situazione è tale che padre de la Potterie poteva scrivere, già nel 1978 e poi ribadire nel 1983, nel suo secondo articolo-saggio, che proprio la ricerca non solo sugli antichi manoscritti evangelici ma anche sulle citazioni dei primissimi autori cristiani, sembra rendere necessario tornare al «da Dio è stato generato», avendo per soggetto Gesù. Rileggiamoci il versetto in quella che sembra essere davvero la versione originaria finalmente restaurata secondo le intenzioni dell’evangelista e ci renderemo subito conto (come vedremo ancor meglio qui sotto) che qui abbiamo una testimonianza preziosissima sulla triplice verginità di Maria. Eravamo convinti che Giovanni si riferisse a quella che non chiama mai col suo nome, ma con quello di “madre di Gesù”, soltanto per l’episodio di Cana e per la presenza ai piedi della croce: ecco invece riemergere una terza testimonianza mariana, di importanza davvero primaria.

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Chiediamoci ora: perché già prima del IV secolo è sparito il riferimento all’origine divina di Gesù e nei testi evangelici si è imposto quel plurale che è giunto sino a noi e che, a ben guardare, inserisce una sorta di corpo estraneo? In effetti, tutto il prologo di Giovanni è un inno solenne alla incarnazione del Verbo ed ecco apparire a sorpresa e in modo che non sembra giustificato «quelli che credono nel suo nome», cioè i membri della Chiesa. E in che modo, poi, questi battezzati, uomini concreti in carne ed ossa e non eterei angeli, sarebbero stati generati «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomini»?
Sembra che sia avvenuto questo: nella Chiesa primitiva infieriva la setta detta dei “doceti”, i quali negavano la natura umana di Gesù e, di conseguenza, il suo concepimento da parte di Maria. Questa sarebbe stata non la madre che ha per nove mesi la creatura nel ventre, ma una sorta di tubo dell’acqua attraverso il quale il Cristo – la cui immagine umana era soltanto apparente – sarebbe passato. Il docetismo (il cui “spiritualismo” era particolarmente pericoloso, rendendo Gesù non una persona, ma una sorta di superarcangelo) si appoggiava proprio sul versetto 13 del prologo che stiamo esaminando: il Cristo era venuto tra noi non solo in modo verginale, come attestato dal «né da volere di carne» e dal «né da volere di uomo». Ma, soprattutto, la tesi doceta sarebbe provata da quel «nec ex sanguinibus». Ma che cosa sono quei “sangui”? Come dicevo sopra, che questo plurale faccia parte del testo originale non c’è alcuna discussione, tutte le testimonianze lo riportano, sia quelle in cui Gesù è il soggetto, sia quelle in cui soggetto sono i suoi discepoli. Ma se (come Giovanni doveva avere scritto nel suo prologo) soggetto era il Messia, questa espressione poteva essere utilizzata facilmente dal docetismo: se Egli non era stato “generato da sangui”, era perché non aveva un corpo come ogni altra persona umana, non c’era stato un parto, sempre accompagnato da effusione di sangue da parte della donna. Dunque, per citare testualmente il nostro padre de la Potterie, «per risolvere radicalmente la questione e togliere agli eretici un’arma, probabilmente all’inizio del III secolo gli scrittori ecclesiastici cominciarono a cambiare il verbo al plurale, spostando il tutto sui cristiani ma interrompendo così, tra l’altro, l’unità del Prologo giovanneo, tutto incentrato sul mistero del Logos fattosi carne». Il “ritocco” ecclesiale finì per coinvolgere anche l’originale del Vangelo ed è giunto sino a noi.
Ma riflettiamo soprattutto su quel “sangui”, facendoci aiutare dalla sintesi del padre Domenico Marcucci, uno dei pochi studiosi che ha avuto il coraggio di rompere il conformismo dei colleghi, prendendo radicalmente sul serio lo studio del biblista della Gregoriana: «Nei testi greci, aima, sangue, si trova solo al singolare. Ma Giovanni usa il plurale. Perché? Per capire, de la Potterie si è rivolto all’ebraico, visto che il quarto evangelista è intriso profondamente della sua cultura, quella giudaica. Nell’Antico Testamento in ebraico, la parola “sangui” (damim) sta a significare il sangue versato dalla donna durante le mestruazioni e durante il parto. Esso la rendeva impura, per cui doveva recarsi al tempio per la purificazione ». Dunque: «Il “non da sangui” sta a significare che la nascita di Gesù è avvenuta, a differenza di ogni altra, senza l’effusione del sangue, dunque verginalmente».
Proviamo a rivedere il versetto 13 nella versione che sarebbe quella originale e vediamone le conseguenze: Gesù «è stato generato da Dio» e, dunque, «non da volere di carne, né da volere di uomo» (virginitas ante partum). Inoltre, il parto si svolse «non da sangui», dunque senza le consuete lesioni corporali, il che sottintende sia la virginitas in partu che quella post partum, non avendo il passaggio del corpo del figlio provocato sanguinamenti e avendo dunque lasciata intatta la madre.
Come si vede, un risultato di straordinaria importanza: e questo, soltanto rimettendo al singolare un verbo, come pare proprio fosse nelle intenzioni di Giovanni. Questi, tra l’altro, chiarisce subito che ciò non mette in discussione la materialità corporea, la realtà umana di Gesù. E, in effetti, il prologo prosegue con le parole: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…». Sta di fatto che, come nota giustamente de la Potterie, se i primi Padri della Chiesa trovavano già in Matteo e in Luca elementi per la concezione verginale, è proprio nel primo capitolo di Giovanni che trovavano non solo conferma ad essa, ma anche un riferimento diretto a un dare alla luce verginale, senza perdite che l’ebraismo considerava impure come quelle di tutte le partorienti.
Ora: perché tanta noncuranza, tanto silenzio su questa riscoperta del possibile, preciso fondamento scritturale di una verità come la semper Virgo, già presente nella Tradizione cristiana nel secondo secolo e divenuta poi dogmatica nella Chiesa? Un punto di fede considerato così importante che, in Oriente, tra le rigide regole date agli iconografi vi è quella di non rappresentare mai la Theotokos senza tre stelle – una sul capo e due sulle spalle – a segno della triplice verginità. Il padre Ignace non aveva torto nel denunciare il conformismo di tanti suoi colleghi, per i quali un simile tema è fonte di imbarazzo, tanto che, come dice padre Marcucci: «In molti manuali di mariologia usati nei seminari cattolici, la verginità ante, in, post è oggetto di silenzi imbarazzati più che di seria trattazione». Ma, attenzione! In uno dei suoi ultimi libri, il padre Stefano De Fiores – forse il nostro maggior mariologo, purtroppo scomparso da poco, docente anche alla Gregoriana – citava gli studi di de la Potterie e ne accettava con convinzione i risultati, giudicandoli fondati non solo sui documenti ma anche sulla dinamica di Giovanni. Un riconoscimento davvero importante.
Ma l’ultimo studio in proposito del docente della Gregoriana è, come dicevo, del 1983. Perché la traduzione della Bibbia, rivista e aggiornata della CEI e che è di 24 anni dopo, non segnala almeno in nota a Gv 1,13 la possibilità, che sembra avvicinarsi alla certezza, che il testo primitivo avesse Gesù e non il suo popolo come soggetto?
Una cosa, comunque, è confermata per l’ennesima volta: la Scrittura è ancora in grado di riservarci sorprese, alcune delle quali – come nel caso di cui parliamo – riguardano quella Madre di Dio il cui mistero è al contempo discreto e inesauribile.

 

 

 

IL TIMONE  N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 64-66

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