Secondo alcuni la 194 è “una buona legge”, o una norma “applicata male”, che ha delle “parti buone”. Ma la realtà è un’altra: quella legge consegna alla madre il diritto di vita e di morte sul figlio innocente.
La legge 194 del 1978 – dicono alcuni – è stata applicata male, perché avrebbe della parti positive in grado di renderla addirittura "buona", È proprio così? Davvero il Parlamento voleva ottenere determinati risultati che solo un'applicazione errata della legge ha falsato? Cosa dice veramente la legge 194? Ecco una sintesi dei sui effettivi contenuti.
1. Autodeterminazione
Sei incinta e vuoi abortire? Recati dal medico di fiducia con il test di gravidanza; il medico ti rilascerà un certificato in cui attesta che sei incinta e che vuoi interrompere la gravidanza; prendi l'appuntamento con l'ospedale e, nel giorno stabilito, presentati per l'aborto: non dovrai pagare e (nella maggior parte dei casi) nemmeno pernottare presso l'ospedale. Nient'altro (articolo 4).
Nella banalità di questa procedura – così simile a quella che ciascuno di noi può affrontare per piccoli interventi ambulatoriali – sta il nucleo essenziale della legge 194: l'aborto nei primi novanta giorni di gravidanza è totalmente libero.
Ma non sono necessari specifici motivi per la richiesta di abortire o un pericolo per la salute della donna? No: l'articolo 4 prima elenca i motivi e poi li rende ininfluenti, prevedendo solo che la donna li "accusi", senza pretendere che qualcuno accerti se esistono davvero.
E l'opera di prevenzione dell'aborto, i tentativi di convincere la donna a non compiere quel gesto, le offerte di aiuto economico, psicologico, sociale? Irrilevanti: anche se il medico o il consultorio tenterà di fare qualcosa, al termine del colloquio dovrà essere rilasciato il certificato che dà diritto alla donna di abortire.
Quanto all'opera dei consultori, la donna può evitare di recarvisi, rivolgendosi ad un qualunque medico di sua fiducia.
E il padre del bambino? Non conta: la donna può decidere di tenerlo all'oscuro di tutto.
È l'autodeterminazione: la donna incinta è lasciata sola, tenuta lontano dal bambino (la legge ne parla solo per menzionare le sue "anomalie o malformazioni"), tenuta lontana dall'uomo che l'ha concepito insieme a lei, tenuta lontana da chiunque potrebbe aiutarla e sostenerla, poiché nei consultori non vi saranno obbiettori (il consultorio rilascia il certificato per abortire), mentre il volontariato è lasciato ai margini, condizionato nella sua azione dai capricci o dai furori ideologici dei dirigenti politici o sanitari. La legge riconosce alla madre il potere assoluto di uccidere il figlio che ha in grembo: e così potrà farlo perché disperata, magari per motivi economici, o perché costretta (da chi rimarrà nell'ombra), o perché i contraccettivi non hanno funzionato, quindi usando l'aborto come contraccettivo di rincalzo (lo fa oltre una donna su quattro), o al contrario perché il figlio non era programmato, è capitato in un "momento sbagliato"… I motivi dell'aborto nei primi tre mesi di gravidanza restano sconosciuti, tanto è vero che quelli che la donna riferisce nel colloquio non vengono nemmeno annotati: in questi trent'anni non esiste alcuna statistica ufficiale che possa documentarli.
2. Eugenetica
Dopo i primi tre mesi di gravidanza, la procedura sembra diversa: occorre un certificato medico che attesti un "processo patologico che determini un grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna» (articolo 6). La legge, però, include tra i processi patologici le "rilevanti anomalie e malformazioni del nascituro»: e così una diagnosi prenatale sfavorevole (anche di carattere probabilistico) permetterà di ritenere che il "completo benessere psicofisico» – è la definizione della salute psicofisica adottata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità sia messo in pericolo. Gli aborti dopo i primi novanta giorni sono enormemente aumentati in questi trent'anni di applicazione della legge, in corrispondenza del progresso delle tecnologie diagnostiche prenatali: nella gravidanza si scatena ormai una raffinata caccia al bambino imperfetto. Il Ministro della Salute conferma che tutti gli aborti dopo i novanta giorni dipendono dai risultati di diagnosi prenatali, pur sostenendo che non si tratta di legge eugenetica.
3. Minorenni
La legge 194 si mostra assai "premurosa" verso le nuove generazioni: le menziona (articolo 2) per permettere la distribuzione dei contraccettivi (anche quelli abortivi, come la pillola del giorno dopo) da parte dei consultori all'insaputa dei genitori; fa poi in modo che il parere dei genitori sull'aborto della figlia minore sia irrilevante: la ragazza può decidere di non avvisarli e, tramite il consultorio, può essere autorizzata dal giudice tutelare (le autorizzazioni vengono concesse nel 98% dei casi!). Nessuna autorizzazione, infine, è necessaria per l'aborto dopo i novanta giorni (articolo 12).
4. Il bambino scomparso
"La legge tutela la vita umana dal suo inizio» (articolo 1): è un proclama che già nelle parole utilizzate (si parla in astratto della vita e non in concreto del bambino; non si specifica quale sia l'inizio della vita) fa intuire la volontà opposta. In realtà, la legge "garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile», nel significato di diritto della donna ad abortire per qualunque motivo e in ogni fase della gravidanza (fino a quando interverrà la "possibilità di vita autonoma del feto», articolo 7): e per garantire questo diritto copre la cruda realtà dell'aborto con la espressione "interruzione volontaria della gravidanza» (la pillola del giorno dopo è stata legalizzata proprio facendo leva sulla sigla IVG), distogliendo lo sguardo dal bambino ucciso per concentrarsi sul processo fisiologico che coinvolge la donna; trasformando, invece, lo sguardo di stupore sul bambino nel ventre materno – l'esperienza esaltante dell'ecografia che tanti hanno vissuto – nell'esame severo, cattivo, già pronto ad una decisione di morte.
5. Le "parti buone" della legge
Questa legge è integralmente iniqua: è ipocrita nelle sue affermazioni di principio (pone le condizioni, ad esempio, perché l'aborto venga usato come contraccettivo pur proclamando che «l'interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite,) (articolo 1), vede la gravidanza come un problema da risolvere, impedisce una vera prevenzione dell'aborto rendendolo un diritto assoluto. E non si vede per quale motivo la donna dovrebbe astenersi dall'esercizio di un diritto.
Per prevenire il ricorso all'aborto la legge punta tutto sui consultori pubblici (cui però la donna non è obbligata ad avvalersi e che, comunque, vengono trasformati in uffici in cui si rilascia il certificato per abortire) e sui contraccettivi (articolo 2), ignorando – e dopo 30 anni ancora molti pervicacemente decidono di chiudere gli occhi – che l'effetto è opposto: maggiore è il numero dei consultori, più ampia è la distribuzione dei contraccettivi, maggiore è quello degli aborti, anche delle minorenni.
Il volontariato per la vita – quello che davvero prende in carico la donna e il suo bambino nella loro integrale umanità – è solo tollerato e privato di ogni diritto: nessun obbligo è previsto per gli enti pubblici di ricorrervi, ma solo una generica possibilità, lasciata ad un giudizio di "idoneità» da parte dei dirigenti sanitari (articolo 2). E così si assiste al chiaro tentativo – che la legge permette – di tenere il volontariato al suo posto, con la concessione di tanto in tanto di un'elemosina, in modo che non disturbi troppo il manovratore.
Dossier: Aborto di stato: trent'anni di vergogna
IL TIMONE N. 73 – ANNO X – Maggio 2008 – pag. 44-45